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Prima le caccia da scuola, ora Kabul vieta alle donne di lavorare per l’Onu

Prima le caccia da scuola, ora Kabul vieta alle donne di lavorare per l’Onu

Afghanistan La vittoria dell’ala oltranzista dei Talebani aggrava la crisi umanitaria e isola ancora di più il paese. Dura protesta delle Nazioni unite per l'ultimo atto della guerra di genere imposta dall'Emirato

Pubblicato più di un anno faEdizione del 6 aprile 2023

Nuova stretta dei Talebani in Afghanistan. Nuova misura contro le donne. E un inedito, durissimo scontro con le Nazioni unite che rischia di aggravare la profonda crisi umanitaria e isolare ulteriormente il Paese. La misura annunciata due giorni fa dalle autorità di fatto vieta a qualunque donna afghana di lavorare per l’Onu.

Una misura con effetto immediato e che, secondo quanto comunicato all’Onu, verrà fatta applicare attivamente. La decisione, come ricordato in un comunicato di Unama, la missione dell’Onu a Kabul, «estende la direttiva precedentemente annunciata il 24 dicembre 2022, che vieta alle donne afghane di lavorare per organizzazioni non governative nazionali e internazionali».

Da allora, l’ecosistema umanitario – ossatura fondamentale di un Paese che dopo vent’anni di presenza straniera non ha ancora servizi di base funzionanti – si è diviso. Da una parte le ong che hanno interrotto le operazioni, sperando di convincere i Talebani a rivedere la misura. Dall’altra quelle che hanno continuato a operare cercando di sfruttare le differenze nella mappa del potere talebano, diverso da area ad area.

ORA ARRIVA il nuovo provvedimento, che segna un ulteriore consolidamento dell’ala più oltranzista e autarchica, quella che fa capo all’Amir al-mumineen, la Guida dei fedeli Haibatullah Akhundzada: il circolo di Kandahar.

La decisione arriva, non a caso, pochi giorni dopo la pubblicazione su Al Jazeera di un articolo del ministro di fatto degli esteri, Amir Khan Muttaqi, rappresentante dell’ala più pragmatica. In cerca di una scappatoia dall’isolamento, pur rivendicando la buona governance dell’Emirato Muttaqi tornava ad aprire al dialogo, alla diplomazia. L’ultimo provvedimento di apartheid di genere fa saltare il tavolo negoziale, non ancora allestito.

Rompendo perfino con le Nazioni unite, ultimo interlocutore disposto a tenere la porta aperta, per salvaguardare un lavoro essenziale per milioni di afghane e afghane. La reazione è stata immediata e particolarmente esplicita. «Nella storia delle Nazioni unite, nessun altro regime ha mai cercato di vietare alle donne di lavorare per l’Organizzazione solo perché donne. Questa decisione rappresenta un attacco alle donne, ai principi fondamentali delle Nazioni unite e al diritto internazionale», ha dichiarato Roza Otunbayeva, a capo di Unama.

Per Richard Bennett, Special Rapporteur Onu sui diritti umani in Afghanistan, che poche settimane fa ha chiesto alla Corte penale internazionale di verificare se sia in corso il crimine di persecuzione di genere, la decisione «è contro la Carta delle Nazioni unite». Per il segretario generale, Antonio Guterres «la misura comprometterà inevitabilmente la nostra capacità di fornire assistenza cruciale alle persone che ne hanno bisogno».

DA OGGI SARÀ impossibile navigare lungo le complicate trame del potere dei Talebani, che possono essere inflessibili in certe aree, meno rigide in altre. L’attacco contro le donne, e l’Onu, è senza precedenti. I rischi per il Paese, enormi. Qualcuno, già distratto, ne approfitterà per derubricare la questione afghana a problema irrisolvibile.

Secondo quanto denunciato il 3 aprile dall’Ufficio delle Nazioni unite per il coordinamento degli affari umanitari, «nonostante l’Afghanistan sia la più grande e grave crisi umanitaria del mondo, l’appello 2023 ha ricevuto meno del 5% del suo fabbisogno, diventando così l’operazione di aiuto meno finanziata al mondo. Senza risorse urgenti, milioni di persone rischiano di non ricevere aiuti salvavita, compreso il cibo». Senza risorse, senza donne. Comunità internazionale e Talebani complici del disastro umanitario afghano.

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