Internazionale

Il Pride dei Talebani nella base di Bagram

Il Pride dei Talebani nella base di BagramParata di mujahedin nel terzo anniversario della presa di Kabul a Laskhar Gah foto di Abdul Khaliq/Ap

Afghanistan tre anni dopo L’anniversario della fuga Usa celebrato in un luogo simbolo. Dai campi di battaglia al governo, tra “purezza” islamica e diplomazia

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 15 agosto 2024

«Oggi celebriamo il terzo anniversario della conquista di Kabul. In questo giorno, tre anni fa, i mujahedin dell’Emirato islamico, dopo una battaglia di due settimane, hanno reclamato con successo la vittoria». Ieri in tutto l’Afghanistan i Talebani hanno onorato la sovranità ritrovata nell’agosto 2021 con il ritiro delle truppe straniere.

Le celebrazioni istituzionali dell’Emirato sono avvenute nella base militare di Bagram. Costruita negli anni Cinquanta del Novecento dai sovietici, principale base logistica dell’occupazione militare russa negli anni Ottanta, poi in mano agli statunitensi per la war on terror, sede della Guantanamo afghana e sfondo scenografico per tutti i presidenti Usa che a intervalli regolari, proprio da lì, hanno assicurato il buon esito della guerra conclusa con un fallimento clamoroso, è stata abbandonata alla chetichella dalle truppe Usa nel luglio 2021.

IN QUEI GIORNI eravamo in Afghanistan. I Talebani erano nel pieno dell’offensiva militare che, partendo dalla conquista dei posti di confine da cui oggi traggono importanti risorse finanziarie, poche settimane dopo, il 15 agosto 2021, gli avrebbe consentito di arrivare all’Arg, il palazzo presidenziale di Kabul abbandonato in fretta dal presidente. Oggi Ashraf Ghani vive negli Emirati arabi uniti dove, a inizio giugno, pare abbia incontrato un alto esponente dell’Emirato, Sirajuddin Haqqani, ministro di fatto degli Interni.

Quella conquista è «un capitolo orgoglioso nella storia dell’Islam che offre alle generazioni future lezioni valide e ispirazione per perseveranza e resistenza», sostengono i Talebani. Che ieri a Bagram, così come a Kandahar, la città del Sud dove risiede la guida suprema Haibatullah Akhundzada, hanno fatto sfoggio di mezzi e disciplina militare. Pur abituati in questi tre anni a frequentare e governare i ministeri, non perdono la matrice jihadista. E ci tengono a esibirla. «Siamo in pace con tutti, tranne con chi minaccia l’Emirato», ci siamo sentiti ripetere nelle due occasioni in cui, dopo l’agosto 2021, ci è stato concesso di lavorare nel Paese.

NEI CONFRONTI DEL MONDO esterno, l’atteggiamento è contraddittorio: come dichiarato ieri a Bagram da Sirajuddin Haqqani, già a capo dell’ala più stragista del movimento e ora esponente dei pragmatici guardati con sospetto dalla guida suprema, l’Emirato vuole buone relazioni, soprattutto economiche, con il resto della comunità internazionale. Ma continua a percepire il mondo esterno, in particolare l’occidente, come una possibile fonte di propaganda ostile e di influenze corruttive.

Le influenze corruttive sono anche dentro il Paese: da qui, su spinta della componente oltranzista, degli ultraortodossi e degli ulema parte dell’entourage di Haibatullah Akhundzada, un processo di reislamizzazione delle istituzioni ereditate dalla defunta Repubblica e dal governo eterodiretto da Washington. Un processo lento, a cui si presta meno attenzione rispetto agli attentati condotti dalla branca locale dello Stato islamico – minaccia che i Talebani assicurano di aver eliminato anche se è solo di due giorni fa un attentato contro la minoranza hazara a Kabul -, ma che avrà ripercussioni profonde sul lungo termine. In attesa di una nuova Costituzione, mentre leggi, regolamenti, protocolli vengono riscritti e ricodificati per garantire la conformità con la sharia, la continuità istituzionale con la vecchia Repubblica viene criticata dagli ortodossi, che hanno imposto un cambio di passo.

Sono loro ad aver spinto verso politiche ultraconservatrici, verso l’istituzionalizzazione della discriminazione di genere, verso il rafforzamento del ministero per la promozione della Virtù e la prevenzione del vizio, custode della moralità. E ad aver sabotato ogni tentativo di riavvicinamento con il sistema euro-atlantico, accusato di aver adottato politiche di rappresaglia economica, come il congelamento dei fondi della Banca centrale.

GUARDANDO retrospettivamente ai tre anni passati, sono evidenti alcune traiettorie. Più netta la sconfitta dei pragmatici, che aspiravano a un riavvicinamento con l’occidente, messi in minoranza e ricondotti su posizioni meno declamatorie. Più forte il controllo della guida suprema, l’Amir ul-muminin Haibatullah Akhundzada, riuscito a imprimere un svolta significativa anche in politica estera. Pressoché chiusa la finestra di opportunità che l’occidente ha avuto per cercare di influenzare l’Emirato. Il vuoto politico e finanziario creato dal disimpegno occidentale è occupato e riempito ormai dai Paesi regionali, la cui priorità è la stabilità, non i diritti umani. Il riconoscimento ufficiale dell’Emirato non c’è, è vero. Ma il ministro degli Esteri di fatto, Amir Khan Muttaqi, ha gioco facile nello snocciolare la lunga lista di cancellerie straniere che hanno accettato le credenziali dei diplomatici dell’Emirato, insieme alle sedi diplomatiche operative a Kabul. «Se non è riconoscimento questo, mi chiedo cosa lo sia», ha dichiarato.

MUTTAQI FA PARTE dell’ala pragmatica. Poche settimane fa il leader supremo gli ha impedito di partecipare alla conferenza di Doha. Voluta dall’Onu, avrebbe dovuto favorire un approccio comune e ha invece ribadito le differenze nella comunità internazionale tra i Paesi donatori, che invocano isolamento e sanzioni del regime oppressivo, e i Paesi regionali, a favore del dialogo. Muttaqi dunque non c’era.

Ma nessuno si faccia illusioni. La diversità di opinioni sui nodi chiave – se e come interloquire con l’occidente e con le potenze regionali, le politiche di genere, il rapporto tra centro e periferia, le risorse finanziarie – non è sufficiente a spaccare il movimento. Le cui vere debolezze sono altre.

La prima riguarda l’evoluzione dai campi di battaglia al governo. Obiettivo del jihad, ripete la leadership, è l’instaurazione e il consolidamento di un vero sistema islamico. Quanto più “puro” è l’Emirato, però, tanto meno potrà far parte della comunità internazionale, e tanto meno godrà del consenso della popolazione urbana. Il consenso è l’altra debolezza: per i Talebani, la legittimità viene da Dio, non dal consenso del popolo. Le leggi divine avranno sempre la priorità sulle leggi e i diritti individuali. Quanto a lungo potrà durare?

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