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Festeggiano gli «studenti» di Kabul, affamati di qualunque riconoscimento

Festeggiano gli «studenti» di Kabul, affamati di qualunque riconoscimento

Afghanistan, paese normale L'accordo raggiunto con la mediazione del Qatar: mani pulite per Scholz, un successo per il regime de facto. A soli tre anni dalla fuga, l’Occidente si scorda di nuovo di donne lapidate, torture e sparizioni

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 31 agosto 2024

Da Lipsia a Kabul. Che cosa dovranno aspettarsi i 28 cittadini afghani deportati ieri dalla Germania nell’Afghanistan governato dai Talebani? E che significato ha per Kabul quel volo della Qatar Airways atterrato nell’aeroporto una volta intitolato al presidente Hamid Karzai? Per ora, le autorità di fatto afghane non commentano la notizia. Ma non ci metteranno molto a incassarne i dividendi politici.

I RAPPRESENTANTI del governo tedesco insistono nel ripetere che non ci sono stati contatti diplomatici diretti tra Berlino e Kabul. E che i negoziati preliminari sono passati per il governo del Qatar. Forse del tutto vero, forse solo in parte, considerando che a Doha, dall’estate del 2021, hanno sede le rappresentanze diplomatiche dei Paesi europei. Doha, dunque, come il luogo in cui avvengono anche quegli incontri che si vogliono tenere nascosti alle opinioni pubbliche interne, per evitare contraccolpi dannosi. Fatto sta che Kabul capitalizzerà il trasferimento degli afghani. Non è un riconoscimento formale dell’Emirato islamico, ma si avvicina molto a un riconoscimento di fatto. E, per quanto ne dica il portavoce del ministero degli esteri tedesco, va proprio nella direzione di quella normalizzazione dei rapporti che l’Europa dice di voler evitare, sopratutto dopo l’ufficializzazione, sulla Gazzetta afghana, delle norme “per il Vizio e contro la virtù” che segnano l’istituzionalizzazione dell’apartheid di genere.

PROPRIO PERCHÉ ipocrita, dettata da esigenze politiche interne, la decisione di Berlino segna un passaggio rilevante e rivelatorio: si può tornare, o quasi, al business as usual. Le deportazioni di migranti afghani dall’Europa all’Afghanistan è stata infatti prassi corrente al tempo della Repubblica islamica, il vecchio regime collassato il 15 agosto 2021 con l’ingresso dei Talebani a Kabul. Pochi giorni prima, è bene ricordarlo, nel pieno dell’offensiva militare talebana e dopo una campagna di omicidi mirati che colpiva attiviste, giornalisti, difensori dei diritti umani, i ministri degli interni e delle migrazioni di Austria, Danimarca, Grecia, Germania, Paesi Bassi e Belgio inviano una lettera alla Commissione europea. In risposta alla nota verbale con cui l’8 luglio di quell’anno il ministero per i rifugiati e i rimpatriati di Kabul (oggi gestito da un membro dell’ala Haqqani) comunicava all’Ue la sospensione per tre mesi dell’accettazione dei migranti afghani rimpatriati. Per i ministri europei la sospensione non andava bene. Perché violava gli accordi tra Bruxelles e Kabul: il Joint Way Forward, firmato nell’ottobre 2016, poi aggiornato e ampliato con la firma il 28 aprile 2021 della Joint Declaration on Migration/Cooperation (Jdmc). Un trattato giudicato ricattatorio da molti: soldi per lo sviluppo – quegli stessi soldi che hanno tenuto in piedi le istituzioni della Repubblica e che oggi vengono negati perché al potere ci sono i Talebani – in cambio dell’accettazione dei rimpatri. Il Paese in quei giorni era in fiamme, i distretti cadevano come birilli nelle mani dei Talebani, la violenza cresceva, ma per quei governi europei c’era un «urgente bisogno di realizzare rimpatri, sia volontari che involontari, in Afghanistan».

A QUANTO PARE, Berlino considera quel bisogno di nuovo urgente. Molto più urgente del dare seguito alle promesse fatte. Thomas Ruttig, tra i più autorevoli conoscitori del Paese, fondatore dell’Afghanistan Analysts Network, ricorda in queste ore che il governo tedesco «non ha fornito un nuovo budget per il 2025 per il suo tanto decantato programma di accoglienza per gli attivisti afghani minacciati dai Talebani». Nel 2022, «aveva promesso di accoglierne fino a 1.000 al mese. A luglio 2024, erano circa 500 in totale».

Per le autorità di fatto, l’arrivo a Kabul dei 28 afghani dalla Germania è un segnale positivo. Significa, così racconterà la macchina della propaganda ufficiale, che il Paese è sicuro. Anche se viene praticata la tortura, punizioni corporali, lapidazione, esecuzioni extragiudiziali e sparizioni forzate. E anche se si tratta di un Paese in cui, a parte le agenzie dell’Onu e della Croce rossa internazionale (e non è dato sapere se siano state informate e coinvolte nel trasferimento o nell’accoglienza) non esiste alcuna organizzazione indipendente che possa verificare il trattamento riservato agli espulsi dalla Germania.

SI TRATTA di un altro tassello da aggiungere alla lunga lista di eventi che per il ministro di fatto degli esteri Amir Khan Muttaqi, nelle scorse ore in Camerun per una riunione, segnalano il riconoscimento di fatto dell’Emirato. Che non varrà come quello de iure, ma che rimane comunque importante. Finora quei segnali erano venuti tutti e soltanto dai Paesi della regione del Golfo. Da ieri, anche dall’Europa.

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