Internazionale

Kabul – Roma senza ritorno

foto di Marzia Bianchi/Pangeafoto di Marzia Bianchi/Pangea – foto di Marzia Bianchi/Pangea

La storia Tre anni dopo la riconquista dell’Afghanistan da parte dei talebani, Mariam e la sua famiglia hanno ricominciato la loro vita in Italia: «Ma è difficile indossare il velo se cerchi lavoro»

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 23 agosto 2024

«Del Ferragosto di tre anni fa ricordiamo tutto: l’ansia, la paura, le decisioni difficili da prendere in poco tempo. La priorità è stata proteggere le attiviste e le beneficiarie che per vent’anni hanno collaborato con noi in Afghanistan».
Il ricordo è ancora nitido nelle parole di Luca Lo Presti, presidente di Fondazione Pangea che dal 2002 lavora in Afghanistan con progetti di empowerment femminile, di microcredito, di scolarizzazione ed educazione finanziaria e che da tre anni continua, nonostante tutto, a operare nel Paese tra mille difficoltà.
Mariam e una delle sue figlie lavoravano a Kabul con Fondazione Pangea. La incontriamo una domenica d’agosto in una località laziale dove lei e i suoi familiari hanno trovato una momentanea sistemazione nell’ambito del Sai (Sistema di accoglienza e integrazione), la rete degli enti locali che con il supporto delle realtà del terzo settore garantiscono una serie di servizi, dall’alloggio alla costruzione di percorsi individuali di inserimento socio-economico.
Nata tra le montagne afghane più di 70 anni fa, Mariam si è trasferita da bambina a Kabul alla ricerca di una vita migliore. Rimasta vedova in giovane età – la figlia minore aveva solo sei mesi – ha attraversato i vari cambi di regime che si sono susseguiti in Afghanistan. «Purtroppo non ho mai avuto un momento di pace e di felicità. Sempre tante preoccupazioni», dice al manifesto.

È UNA DONNA MINUTA, colonna portante della famiglia. Mentre ci racconta la sua storia, i nipoti e le figlie che entrano ed escono dalla stanza non mancano mai di dedicarle un gesto di affetto e di cura. La famiglia Musavi è di etnia hazara, una delle più vessate in Afghanistan tra violenze, case e terreni sottratti, donne e bambini rapiti e venduti come schiavi anche in altre nazioni come il Pakistan. «Era davvero difficile vivere con la paura costante di essere insultati, picchiati, rapiti o che potessero fare qualcosa alle donne e ai bambini delle nostre famiglie. Venivamo presi continuamente di mira», aggiunge il genero di Mariam, Farahd che di anni ne ha 46.
È un nucleo numeroso (undici persone) e molto unito. «Non dimenticheremo mai la fuga, non pensavamo che la nostra vita sarebbe cambiata nel giro di poche ore e non sapevamo quanto saremmo rimasti in Italia», ricorda Mariam. «Siamo scappati il mattino presto, prima che sorgesse il sole, per evitare i talebani ma anche le persone che saccheggiavano le case».
La concitazione di quelle ore emerge dai racconti dell’intera famiglia. La P di Pangea sul palmo della mano (lasciapassare per accedere all’aeroporto) che si scioglie con il sudore, gli spari dei talebani, la calca, la nipote più grande di Mariam che avendo problemi respiratori non riesce a stare in mezzo a tutte quelle persone e decide nella disperazione di tornare indietro, trovando la casa già depredata.

«A DISTANZA di tre anni dal ritorno dei talebani possiamo dire con certezza che in Afghanistan è in atto un vero e proprio apartheid di genere», denuncia Lo Presti. «Per le donne la situazione precipita di giorno in giorno, per loro non è possibile andare a scuola, fare sport, semplicemente curarsi in autonomia o andare in giro da sole, persino recarsi in ospedale per curarsi è impossibile se non si è accompagnate da un uomo, sia esso il marito, il fratello o addirittura il figlio maschio piccolo. Le donne non esistono, non sono persone perché non possono godere dei diritti umani». Ma le sfide per le donne afghane non mancano anche qui, come spiega Golsom, la nipote 19enne di Mariam. «È difficile vivere con il velo soprattutto se cerchi lavoro, quando hai colloqui per fare la commessa o stare comunque a contatto con le persone. Questo per me è doloroso perché vorrei che la gente mi conoscesse e giudicasse per quello che sono e non per ciò che indosso. A volte metto il velo più stretto, a volte più morbido, ma è comunque una mia scelta se mostrare i capelli o meno. Forse è difficile da capire ma vorrei sentirmi più libera adesso che sono qui».
In Italia Golsom ha conseguito il diploma di terza media. Il suo sogno, come quello della sorella maggiore, è di continuare gli studi. Un obiettivo complicato con una famiglia così numerosa. Ognuno, una volta terminato il progetto Sai, dovrà provvedere al mantenimento della famiglia. Come ci spiega un’operatrice di Pangea, tra le ansie maggiori dei beneficiari e delle beneficiarie, oltre al lavoro, c’è la ricerca della casa. Soprattutto nelle grandi città dove gli affitti sono insostenibili anche per chi non vive in una situazione di fragilità come quella dei Musavi. Golsom ha iniziato un tirocinio retribuito insieme alla madre in un caffè letterario, un luogo in cui si sentono accolte e comprese. Un’opportunità per migliorare la padronanza della lingua italiana e fare amicizia con nuove persone.

ABOLFAZAL è uno dei nipoti più giovani di Mariam. Ha 14 anni, sorride spesso e per lui qui è tutto positivo. A causa delle difficoltà iniziali con la lingua è stato inserito in una classe che non corrisponde alla sua età. Le sue materie preferite sono matematica e scienze. Inizierà le medie solo a settembre e non è dispiaciuto di stare in classe con ragazze e ragazzi più piccoli. È emozionato e felice all’idea di intraprendere questo nuovo percorso. «A scuola, qui, i bambini sono più liberi che a Kabul», dice. «È bello, maschi e femmine possono studiare e giocare insieme. Il futuro lo vedo bene».
Prima di salutare i Musavi ci affacciamo insieme da una finestra aperta sulle montagne laziali. Mariam, tenendo tra le mani la sua tazza di chai (tè), sospira e pronuncia alcune frasi in farsi che Golsom, emozionata, traduce per noi. Il suo messaggio è semplice: «Non dimentichiamo chi è rimasto in Afghanistan, abbiamo questo enorme peso sul cuore». L’incontro con questa famiglia rende ancora più evidente quanto i percorsi di scolarizzazione, l’apprendimento della lingua, l’inserimento all’università e i tirocini professionalizzanti siano fondamentali per l’inclusione delle persone arrivate in Italia. A questo scopo Pangea ha aperto uno sportello interculturale a disposizione delle donne afghane, rifugiate e richiedenti asilo, per favorire il loro empowerment, la loro istruzione e il loro inserimento nel mondo del lavoro. Lo sportello ha sede a Roma ma è possibile scrivere da tutta Italia utilizzando l’indirizzo e-mail migrantwomen@pangeaonlus.org.

UN INTERVENTO chiave è quello dell’accompagnamento al lavoro, con inserimenti in tirocini principalmente nel settore della ristorazione come caffetteria e panificazione. Alcune donne hanno ottenuto anche la certificazione per lavorare nei ristoranti. Altre sono state inserite nell’ambito della mediazione linguistica o come addette alle vendite nei negozi e in librerie. Si lavora anche per i bilanci di competenze, la costruzione dei curricula, il riconoscimento dei titoli di studio e i progetti abitativi di terza accoglienza. Tutti tasselli fondamentali per sostenere Mariam, Farahd, Golsom, Abolfazal e le altre famiglie afghane presenti in Italia.

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