«Nessuno sa dove viva Haibatullah Akhundzada. È qui a Kandahar, ma non sappiamo neanche che aspetto abbia. Lo tengono nascosto». I nostri interlocutori, che chiedono l’anonimato, sono convinti che molte delle decisioni prese dal nuovo Emirato provengano da qui, dal sud del Paese, dalla provincia che ha dato i natali, quasi trent’anni fa, al movimento dei Talebani. Forse sono decisioni prese da Haibatullah, l’Amir ul-mumineen, la guida dei fedeli, la massima autorità religiosa dell’Emirato. Ma forse no.
Intorno alla sua figura, al suo ruolo, alla sua attività, c’è il mistero più assoluto. Presenza fantasmatica, eppure centrale nel racconto con cui i Talebani celebrano e legittimano la presa e l’esercizio del potere. I decreti più importanti portano la sua firma, che nessuno contesta, formalmente. Come l’editto dei primi di maggio, presentato al ministero per la Prevenzione del vizio e la promozione della virtù, con cui i Talebani hanno imposto il velo integrale alle donne. La firma c’è, di lui però non c’è traccia.

«I TALEBANI DICONO che abbia condotto la preghiera per l’Eid, la fine del Ramadan, nella moschea Eid Gah, qui a Kandahar. C’era anche un mio amico. Racconta che si vedeva un uomo di spalle, coperto e protetto da altri». I Talebani hanno molto pubblicizzato l’evento, anche per smentire le voci che danno l’Amir ul-mumineen morto, tenuto «artificialmente» in vita come già successo con mullah Omar, di cui i guerriglieri col turbante hanno tenuto nascosta la morte per due anni. «Di Haibatullah non c’è nessuna foto, nessun video, nessuno l’ha visto in faccia. Poteva essere chiunque alla moschea. Nessuno sa chi sia. Potrebbe anche essere una spia pachistana», continuano con fare beffardo i nostri interlocutori, tra quanti vedono nel ritorno al potere dei Talebani un’abile manovra dei servizi segreti militari di Islamabad.

UNA LETTURA-SCORCIATOIA, ma il problema rimane. «La questione vera è che nessuno sa veramente chi prenda le decisioni. I ministri a Kabul? La Rahbari shura (l’organo collegiale della leadership, ndr)? Islamabad? O davvero un emiro, un uomo rimasto a 500 anni fa, che vede nella tecnologia qualcosa di empio e peccaminoso, da kafir, e che quando riceve visite non permette che siano portati cellulari o altro, perché ha paura di essere localizzato?». Chi decide veramente?
Domande senza risposta, per ora. Certo rimane il culto della continuità dell’Emirato, della sua longevità, della capacità di resistere a invasori e oppressori. Una visione di cui si fa portavoce il mawlawi Noor Ahmad Saeed, a capo del dipartimento per l’Informazione e la cultura della provincia. Superato il cortile di ingresso, al piano terra resiste ancora la targa del «Lincoln Learning Center», uno dei centri finanziati dal governo Usa. Biblioteche, corsi di inglese, intitolati al presidente statunitense. Tutti chiusi, ora. Appartengono a un’altra era. Archiviata, spiega il mawlawi, grazie alla determinazione dei Talebani. Fa parte del gruppo da tanti anni.
Tanti da non ricordare bene quanti: «25, forse 28, ora non saprei dire di preciso». Una vita intera. Il mawlawi Noor Ahmad Saeed sostiene che, se la Repubblica islamica «è collassata in 10 giorni, è perché avevamo e abbiamo il sostegno di tutti gli afghani. La Repubblica aveva il sostegno dell’America, ma non quello della gente. Per questo era debole. La nostra resistenza, invece, è stata forte grazie alla popolazione».

GLI RICORDIAMO chi contesta, chi critica le restrizioni, la repressione, le sparizioni, chi cerca salvezza o nuova vita altrove, fuori dall’Afghanistan. Replica che non è vero, che la crisi dipende dalle sanzioni dell’Occidente, dall’America che ha sempre contrastato i Talebani, ma «abbiamo il sostegno di 40 milioni di afghani».

COSA LO DIMOSTRA? «Il fatto che in questo Dipartimento lavorino 22 funzionari del vecchio governo. Sono stato io a confermarli e a fargli pagare lo stipendio. E in totale ci sono 800mila impiegati del vecchio governo nell’Emirato». Di cui, assicura, nessuno deve temere all’estero. «Non abbiamo mai attaccato nessuno, ma in nome della democrazia gli stranieri sono venuti qui, hanno ucciso tante persone, compiuto atti orribili. Hanno messo al potere i signori della guerra, i vari Fahim, Dostum, Amrullah Saleh. Sono continuate le uccisioni, gli stupri e l’hanno chiamata democrazia». Un periodo buio, secondo lui, cominciato con il rovesciamento del primo Emirato di mullah Omar, che proprio qui a Kandahar è stato investito del titolo di Amir ul-mumineen.
«Sì, mullah Omar è stato nominato Emiro nella moschea qui davanti», fanno allungando il viso alcuni uomini, perlopiù vecchi, che siedono, chiacchierano, pregano di fronte al portone d’ingresso del mausoleo ottagonale che ospita la tomba di Ahmad Shah Durrani. Qui chiamato anche Ahmad Shah Baba, il padre dell’Afghanistan, Ahmad Shah Durrani ha regnato su un vasto impero, dal 1747 al 1772, ponendo le fondamenta della città nel giugno 1761 e riuscendo nel 1768 a far arrivare, probabilmente da Bukhara, ‘il mantello del profeta’, oggi custodito in un edificio adiacente, inaccessibile. «No, noi non c’eravamo quando mullah Omar è stato nominato Emiro».
Trovare qualcuno che abbia assistito all’evento non è facile. «L’attuale responsabile del dipartimento della Finanze, il mawlawi Abdul Habib c’era: è stato maestro di mullah Omar», ci spiegano i vecchi del mausoleo. Poco più in là, due bambini sono alle prese con un cellulare. Un altro salta e gioca per conto suo. Alcune bambine si rincorrono sul pavimento liscio di fronte all’edificio che ospita il mantello.

ALL’INGRESSO della moschea, ci sono dei giardinetti. «Qui il mercoledì ci venivano sempre le donne. Facevano i pic-nic, chiacchieravano, discutevano. Ora non possono più farlo».

È LA NUOVA ERA dei Talebani, fatta di editti formali e consigli informali ma efficaci. I «consigli» a Kandahar vengono soprattutto dal responsabile provinciale del ministero per la Promozione dellla virtù, lo sceicco Abdul Rahman Tayyabi. Che ha inaugurato una campagna contro le donne che non si coprono abbastanza: non devono frequentare il bazar, né, se sole, viaggiare in città. I Talebani sono stati chiari, ci raccontano: «Quel che si può fare a Kabul, le libertà che ci sono lì, qui non devono esserci».
Non c’è neanche più la libertà di salire sul Chilzena, i 40 gradini da cui si accede a una nicchia con le iscrizioni in persiano delle grandi conquiste dell’imperatore Babur, al potere nel XVI secolo e fondatore dell’impero Moghul. «Fino a su non ci si può andare. Puoi fare quattro-cinque gradini, non di più. Ci sono le case qui sotto: è sconveniente che qualcuno ci guardi dentro». Così ripetono i miliziani Talebani che presidiano la collina. Sono molto giovani. Uno di loro si è unito all’Emirato solo da un anno e mezzo: in tempo per festeggiare il ritorno al potere dei Talebani. Vengono tutti dai distretti della provincia di Kandahar. Il più loquace viene dal distretto di Panjway, vera culla del movimento. Altri da Mirwais Mina. «Oltre quella linea non puoi andare, ci sono le case».

VIVONO TUTTI in una stanza stretta e lunga. Alle pareti, in alto, le loro armi. «Quelle no, non le puoi fotografare. E poi le stiamo trasferendo. La situazione non è stabile ancora».