«Sebbene i donatori debbano continuare a fare pressione sui leader talebani affinché pongano fine alle loro violazioni dei diritti delle donne e delle ragazze, limitare il sostegno all’Afghanistan a livelli sempre più bassi di aiuti umanitari per isolarli non è la risposta». Così scrivono Patricia Gossman, direttore associato della divisione Asia di Human Rights Watch, e Fereshta Abbasi, ricercatrice sull’Afghanistan della stessa associazione, in un articolo pubblicato l’11 luglio su The New Humanitarian.

NELL’ARTICOLO enfatizzano due punti fondamentali. Il primo è un dato di fatto: «Non c’è modo di affrontare gli acuti problemi dell’Afghanistan evitando del tutto i Talebani». Il secondo è il dilemma che ne deriva: «Dato che i Talebani hanno interferito anche con l’assistenza umanitaria, impedendo alle donne di lavorare per le agenzie delle Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie internazionali, tranne che nei settori della sanità, della nutrizione e dell’istruzione, cosa si può fare?».

Per Gossman e Abbasi, visto che «le donne e le ragazze sono quelle che hanno sofferto di più sotto le politiche discriminatorie dei Talebani, perché non solo sono state escluse dall’istruzione oltre la prima media e da molte opportunità di lavoro, ma sono anche tra le più colpite dalla crisi umanitaria», un principled engagement, un «confronto basato su principi è l’unica scelta possibile».

A lungo termine, però, «ancora più importante degli aiuti umanitari è l’assistenza diretta a soluzioni durature su scala nazionale» in settori come «la gestione delle risorse idriche, l’irrigazione, l’agricoltura, l’adattamento al clima e la salute pubblica», un approccio che sta provando ad adottare la Banca mondiale con progetti realizzati da e per le donne, al di fuori del controllo dei Talebani.

UN CONTROLLO che rimane estremamente violento, come mostra il recente rapporto del servizio Diritti umani di Unama, la missione dell’Onu in Afghanistan, dedicato in particolare alle attività del ministero per la Promozione della Virtù e la prevenzione del vizio: De Facto Authorities’ Moral Oversight in Afghanistan: Impacts on Human Rights. Secondo il rapporto tra il 15 agosto 2021 – giorno del ritorno al potere dei Talebani – e il 31 marzo 2024 ci sarebbero stati 1.033 casi documentati di applicazione della forza e violazione delle libertà personali, con danni fisici e mentali, con un «impatto discriminatorio sulle donne», contribuendo «a creare un clima di paura». Per Zabiullah Mujahid, portavoce dell’Emirato, i ricercatori di Unama sbagliano, perché valutano l’Afghanistan da una prospettiva occidentale, non secondo quella islamica. Per Hamdullah Fetrat, suo vice, le critiche sono «infondate. Da quando l’Emirato islamico è salito al potere, i diritti della Sharia di tutti i cittadini, siano essi donne o uomini, sono stati garantiti e tutti sono trattati secondo la Sharia».

Trattamento diseguale, invece, per i 3 atleti e le 3 atlete afghane che dovrebbero rappresentare l’Afghanistan alle Olimpiadi di Parigi. Dopo che il Comitato olimpico internazionale ha annunciato che la formazione sarebbe stata composta da sei atleti, appunto 3 uomini e 3 donne, Atal Mashwani, portavoce del Dipartimento dello sport ha disconosciuto le atlete: «Attualmente lo sport femminile è interrotto in Afghanistan. Se non praticano sport, come possono far parte di un team nazionale?».

LA REPLICA arriva dall’Australia, da una delle tre atlete, la centometrista Kimia Yousofi: «È un onore rappresentare ancora una volta le ragazze della mia patria. Ragazze e donne che sono state private dei diritti fondamentali, tra cui l’istruzione, che è il più importante».