I Talebani incassano, l’Onu si difende. A distanza di alcuni giorni dalla fine della terza conferenza di Doha sull’Afghanistan, continua la coda di polemiche sulla due giorni ospitata il 30 giugno e l’1 luglio nella capitale del Qatar e fortemente voluta dal segretario generale delle Nazioni unite, Antonio Guterres, per risolvere uno dei più difficili compiti della comunità internazionale. Come trattare con l’autoproclamato Emirato islamico d’Afghanistan, un governo non riconosciuto da alcun paese al mondo, i cui membri compaiono nelle liste dei terroristi internazionali, governo che pratica quello che il relatore speciale sui diritti umani nel Paese Richard Bennett condanna come «apartheid di genere», ma che ha la sovranità di fatto su 40 milioni di persone, di cui almeno 24 milioni hanno bisogno di assistenza umanitaria. Che fare, dunque?

POCO PIÙ di un anno fa Guterres ha inaugurato gli incontri di Doha, per trovare una strategia comune in seno a una comunità internazionale che ha archiviato frettolosamente, con il ritiro delle truppe, il dossier Afghanistan. E poi per dare seguito alle raccomandazioni dell’Independent Assessment commissionato dal Consiglio di Sicurezza all’ex ambasciatore turco Feridun Sinirlioglu, reso pubblico nel novembre 2023, secondo il quale serve «un impegno internazionale più integrato e coerente». Con l’obiettivo di reintegrare l’Afghanistan – Paese su cui pesa l’eredità di 45 anni di conflitto – nel consesso internazionale, a condizione che vengano rispettati gli obblighi internazionali. A partire dalla parità di diritti tra uomini e donne, oggi negata da un regime che pratica in modo istituzionalizzato, sistematico e intenzionale la discriminazione di genere, negando, tra le altre cose, l’istruzione alle ragazze sopra i 12 anni e l’accesso all’università.
Ai primi due incontri di Doha, nel maggio 2023 e nel febbraio 2024, i Talebani non hanno partecipato. Nel terzo di pochi giorni fa pur di averli al tavolo diplomatico l’Onu sembra aver ceduto alle loro richieste: nessuna donna invitata, focus su questioni finanziarie e commerciali. Niente discussioni sui diritti umani.

L’ESCLUSIONE delle donne ha innescato polemiche e richieste di boicottaggio, fuori e dentro l’Afghanistan. E non è servito molto integrare l’agenda di Doha con un incontro tra alcuni rappresentanti speciali per l’Afghanistan e 5 esponenti della società civile afghana, il giorno successivo alla chiusura formale della conferenza. Per molte organizzazioni per i diritti umani, l’Onu ha tradito la stessa Carta delle Nazioni unite e, con essa, le donne afghane: il dialogo con i Talebani sulle questioni di sicurezza ed economiche, in cambio di concessioni sui diritti umani, è destinato al fallimento, sostengono. I Talebani si limiteranno a incassare le aperture diplomatiche, percependole come una forma di normalizzazione del loro regime, passo preliminare al riconoscimento ufficiale.

PER L’ONU, come dichiarato dalla sottosegretaria generale Rosemary DiCarlo, che ha coordinato la conferenza di Doha, la «scelta è stata molto difficile, forse impossibile», ma si tratta solo «dell’inizio di un processo» e il mandato Onu è proprio quello di far incontrare le autorità di fatto con i rappresentanti speciali. Farlo, per la prima volta dal ritorno al potere dei Talebani, è stato importante. Pur escluse dalla conferenza, «le preoccupazioni e i punti di vista delle donne afghane e della società civile sono stati al centro dell’attenzione». E lo saranno ancor di più in futuro. Inoltre, «questo incontro e questo processo di impegno non significano normalizzazione o riconoscimento».

I Talebani, in ogni caso, hanno incassato l’occasione di visibilità. A guidare la delegazione afghana era Zabihullah Mujahid, portavoce dell’Emirato islamico, preferito al ministro di fatto degli Esteri, quell’Amir Khan Muttaqi che pare sia considerato troppo pragmatico e votato al compromesso con l’Occidente dal leader supremo, Haibatullah Akhundzada, che detta la linea da Kandahar. Tornato a Kabul, Mujahid si è affrettato a convocare una conferenza stampa in cui ha rivendicato il successo di Doha. L’Emirato, così Mujahid, avrebbe ricevuto garanzie di piena soddisfazione per le tre richieste principali: rimozione delle restrizioni sul settore bancario; scongelamento delle riserve estere della Banca centrale afghana; assistenza e alternative per quei contadini che, rispettando il bando dei Talebani sulla produzione dell’oppio, ridotta del 90%, non hanno più mezzi di sussistenza.

IN REALTÀ, a Doha non c’è stato alcun impegno concreto, anche perché, specie nella diplomazia euro-atlantica, ci sono ancora molte divergenze. Per esempio tra chi pensa che non ci siano molti spiragli e chi è convinto che, continuando sulla strada della pressione e del disimpegno, non si farà che consegnare il Paese nelle mani delle autorità di fatto, negando ogni ipotesi di graduale cambiamento e abbandonando la popolazione al suo destino. La pensa così anche Madina Mahboobi, l’unica tra le partecipanti all’incontro con la società civile ad aver avuto il coraggio di dire la propria pubblicamente, di fronte ad accuse di «complicità». Sulla piattaforma X, sostenendo la necessità del dialogo, si chiede: «L’imposizione di restrizioni e boicottaggi da parte della comunità internazionale servirà ad alleviare le sofferenze delle persone? Temo di no. Temo che questo approccio reattivo della comunità internazionale vada di pari passo con le restrizioni imposte dalle autorità per reprimere ulteriormente la popolazione».