«Dieci Paesi, tra cui Stati Uniti, Canada, Australia, Austria, Cile, Filippine, Malta e Messico, hanno approvato la codifica dell’apartheid di genere o la sua inclusione nel Trattato sui crimini contro l’umanità, che verrà nuovamente discusso il prossimo 10 ottobre: invito i cittadini italiani a chiedere al loro governo di appoggiare la codificazione dell’apartheid di genere».

Va dritta al punto l’attivista afghana Metra Mehran, dal 2021 in esilio e residente negli Stati Uniti, dove collabora con l’Atlantic Council e dove contribuisce alla campagna sul Gender Apartheid. L’abbiamo incontrata a Roma, dove ha trascorso alcuni giorni fitti di appuntamenti su invito della Fondazione Pangea, che sostiene la campagna nell’ambito del progetto «Donne, pace e sicurezza». L’intervista è avvenuta a ridosso della conferenza di Doha organizzata dall’Onu, che ha visto riuniti i rappresentanti speciali di molti governi e quelli dell’Emirato islamico d’Afghanistan, il governo di fatto dei Talebani.

Lei sottolinea spesso come le politiche discriminatorie adottate dai Talebani non siano «incidenti isolati, ma un regime istituzionalizzato». Quali i principali meccanismi di controllo e repressione?

La discriminazione di genere in Afghanistan non è solo un atto sociale o culturale, ma un regime sistematico e istituzionalizzato di sottomissione e discriminazione in cui le donne sono legalmente bandite e represse. Da quando i Talebani sono saliti al potere, hanno emesso 150 decreti circa, di cui 95 riguardano le donne, negando libertà di movimento, di espressione, diritto a praticare la cultura e l’arte, accesso alla giustizia, etc. Siamo l’unico Paese al mondo in cui tutti i diritti umani fondamentali sono legalmente vietati. Praticamente, essere una donna è divenuto un crimine.

A queste politiche, si sommano le scelte che riguardano gli assetti istituzionali…

Hanno smantellato tutte le istituzioni che dovrebbero proteggere le donne: il ministero per gli Affari femminili è stato sostituito dal ministero per la Proibizione del vizio e la promozione della virtù. Hanno smantellato la legge sull’eliminazione della violenza contro le donne. L’articolo 2 della vecchia Costituzione sosteneva l’uguaglianza tra donne e uomini, ma non abbiamo più una Costituzione. Hanno smantellato la Commissione per i diritti umani e l’intero diritto di famiglia. Migliaia di cause di divorzio, chiuse a favore delle donne, sono state annullate. E hanno introdotto nuove istituzioni che attuano violentemente questi decreti. Vale in particolare per la “polizia morale” del ministero del Vizio e della virtù e per l’ufficio del Procuratore generale, divenuto Direzione generale per il monitoraggio e la corretta attuazione dei decreti.

Perché la codifica dell’apartheid di genere come crimine internazionale è importante?

L’apartheid come sistema di segregazione e oppressione ha disumanizzato le donne in Afghanistan e noi, come comunità internazionale, dovremmo chiamarlo per quello che è: apartheid di genere. L’apartheid è un crimine secondo il diritto internazionale, ma solo per la discriminazione razziale. Oggi per abusi come quelli compiuti in Afghanistan non c’è responsabilità giuridica. È tempo di codificare anche l’apartheid di genere come crimine.

La redazione consiglia:
Il controllo violento dei Talebani anche sullo sport. Disconosciute le tre olimpioniche

Con quali conseguenze pratiche?

Aiuterebbe a riconoscere non solo la responsabilità dei Talebani, ma anche quelle della comunità internazionale. Inoltre, darebbe speranza al popolo afghano e porterebbe con sé stigma e vergogna. Sarebbe cruciale per mostrare la solidarietà globale e scuotere la coscienza dell’umanità e fornirebbe un quadro giuridico su come affrontare la situazione. Alcune persone stanno lavorando per portare il caso dell’Afghanistan alla Corte penale internazionale. Noi stiamo spingendo per la codificazione dell’apartheid di genere. Sono approcci complementari, con cui la comunità internazionale può opporsi alle atrocità in corso e far sì che i Talebani rispondano delle loro azioni.

C’è chi sostiene che, proprio per tutelare i diritti delle donne, occorra mantenere canali di dialogo aperti con le autorità di fatto…

Spesso chi lo sostiene poi non include i diritti delle donne in questo dialogo. Io sono per il boicottaggio e l’isolamento dei Talebani, il cui governo non va riconosciuto, non per quello dell’Afghanistan. Ma ogni dialogo deve essere condizionato al rispetto degli obblighi giuridici internazionali e delle leggi sui diritti umani.

Nel suo ultimo rapporto, il relatore speciale Onu sui diritti umani in Afghanistan, Richard Bennett, è tornato a chiedere che ogni dialogo con i Talebani sia vincolato al rispetto dei diritti. Pochi giorni dopo, a Doha, le donne afghane sono state escluse dal tavolo negoziale, su loro richiesta. Cosa ne pensa?

La risoluzione 2721 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ha dato avvio al format di Doha, chiede di garantire la tutela dei diritti umani e dei diritti delle donne. A Doha invece non solo i diritti delle donne sono stati esclusi dall’ordine del giorno, ma anche le donne. È frustrante che non venga rispettata la volontà del popolo afghano, delle donne soprattutto, e che le Nazioni Unite contraddicano la loro stessa Carta e i propri obblighi. Nessun problema potrà essere risolto se le donne, il 50% della popolazione, verranno ignorate.

Ha ancora fiducia nell’Onu?

È come se prendessero tempo, ma in Afghanistan non c’è più tempo. Ogni giorno che passa il sistema di oppressione dei Talebani diventa più istituzionalizzato e loro rafforzano la propria legittimità esterna, in assenza di qualunque legittimità interna. È una strategia costosa per noi, nel lungo periodo. Per la comunità internazionale noi siamo un lavoro. Per noi in ballo c’è la vita di ogni ragazza che avrebbe dovuto concludere le scuole superiori, andare all’università, e non può farlo. Anche se riaprissero le scuole tra due o tre anni, molte ragazze non tornerebbero indietro. La traiettoria della vita delle donne e delle ragazze in Afghanistan è irreversibile.