Crisi umanitaria in Afghanistan, il silenzio assordante dell’Italia
Kabul Calling Parlarsi non significa accettare le politiche talebane perché tra inazione e legittimazione esiste un ampio spettro di possibilità. Serve dunque un coinvolgimento attivo che comprenda anche il dialogo coi Talebani.
Kabul Calling Parlarsi non significa accettare le politiche talebane perché tra inazione e legittimazione esiste un ampio spettro di possibilità. Serve dunque un coinvolgimento attivo che comprenda anche il dialogo coi Talebani.
La presidente della Commissione Diritti umani della Camera Laura Boldrini ha reso nota la sua intenzione di presentare un’interrogazione al governo per «chiarire qual è la posizione dell’Italia nei confronti dell’Afghanistan, quali misure intenda intraprendere per sostenere la popolazione stremata e tutelarne i diritti – anche ripristinando aiuti allo sviluppo – e come intenda garantire la protezione internazionale alle afgane e agli afgani in fuga dai Talebani». Lo ha fatto dopo aver incontrato i responsabili della “Rete 26 febbraio” (strage di Cutro, ndr) e quelli di quattro associazioni italiane e internazionali: Emergency, Intersos, Unitad Against Inhumanity (Uai) e Afgana. Durante un’audizione parlamentare abbiamo riassunto le condizioni in cui vive un popolo già vessato da leggi discriminatorie e dai postumi di una guerra infinita condotta con l’illusione di mettere le cose a posto e conclusasi con un fallimento. Cui è seguito un assordante silenzio.
Riparlarne tre anni dopo la fuga del 15 agosto 2021 da Kabul, significa obbedire all’imperativo etico che obbliga un Paese che ha investito nella guerra afgana circa 10 miliardi (di cui il 90% in spesa militare) a non tradire la promessa fatta allora e che suonava più o meno così: «Non dimenticheremo l’Afghanistan». Ma poi i soldi per l’emergenza si sono assottigliati, quelli per la ricostruzione sono scomparsi e la diplomazia europea – come quella americana – si è limitata a osservare la situazione da Doha, dove anche la nostra ambasciata è stata trasferita quell’estate, benché l’ambasciatore di allora a Kabul, Vittorio Sandalli, avesse ipotizzato che la nostra legazione in Afghanistan potesse rimanere aperta. Battaglia persa con la Farnesina e col governo.
Ora ci si chiede se si può lasciar morire di fame la popolazione di un Paese solo perché non ne riconosciamo il regime. I numeri lo testimoniano: Emergency e Intersos – presenti sul territorio – ricordano che 23,7 milioni di afgani, oltre metà della popolazione, hanno bisogno di aiuti umanitari per sopravvivere e che oltre l’80% delle famiglie vive con meno di un dollaro al giorno. I tassi di malnutrizione materno-infantile sono fra i più alti al mondo così come l’incidenza di morti per ordigni esplosivi o da parto, conseguenza di una sanità fragile con le carenze croniche di un sistema pubblico in cui l’accesso alle cure essenziali è un percorso a ostacoli. Uai ha ricordato il tema della confisca delle riserve della Banca centrale afgana (Dab) da parte degli Usa e dei suoi alleati (Italia compresa), col congelamento di 9,5 mld di dollari. Soldi del governo talebano? No, dei cittadini afgani che ora non possono metterli a garanzia per commerciare con l’estero. Tagliata fuori dal sistema bancario internazionale la Dab non è più in grado di svolgere le sue normali attività per garantire il funzionamento dell’economia. Uno scongelamento graduale con monitoraggio internazionale di quei fondi è urgente e necessario per il benessere dell’economia afgana. E non significa riconoscere il regime talebano.
Ma non c’è solo la crisi umanitaria, sanitaria ed economica, la repressione interna e la discriminazione di genere. La società afgana sconta anche la mancanza di coraggio e creatività politica della diplomazia euro-atlantica. Di fronte all’impasse c’è bisogno di uno scarto: una diplomazia dei piccoli passi, che non sia declamatoria e basata su ultimatum ma che ricerchi l’opzione che più tutela i diritti e i bisogni della popolazione afgana e delle donne. Parlarsi non significa accettare le politiche talebane perché tra inazione e legittimazione esiste un ampio spettro di possibilità. Serve dunque un coinvolgimento attivo che comprenda anche il dialogo coi Talebani. In nome di quei diritti che da vent’anni proclamiamo di voler difendere.
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