Se la nave Xelo affondata sabato scorso nel golfo di Gabès trasportava 750 tonnellate di idrocarburi liquidi, come sostiene l’equipaggio, a tre miglia dalle coste tunisine e a 15 metri di profondità c’è una bomba ecologica che rischia di esplodere. Finora, però, non sono state prese le dovute misure per disinnescarla. Nelle ore successive all’affondamento e per tutto il fine settimana le autorità di Tunisi hanno parlato di «situazione sotto controllo» perché non ci sarebbero perdite di carburante dal carico.

L’Italia, che dista solo 150 miglia nautiche dal luogo del naufragio, ha inviato il pattugliatore della marina Vega. Questo, però, può svolgere solo attività di monitoraggio di superficie. In casi simili le operazioni per la messa in sicurezza dell’unità affondata sono estremamente delicate e complesse. Richiedono competenze e tecnologie specifiche.

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A seguito della «Convenzione per la protezione del Mar Mediterraneo dai rischi dell’inquinamento» (Barcellona, 1976) sono stati creati dei centri responsabili di protocolli o attività a tutela dell’ambiente marino. Per la gestione di incidenti che possono causare inquinamento esiste il Rempec (Regional Marine Pollution Emergency Response Centre for the Mediterranean Sea), che ha sede a Malta e assiste gli stati costieri. Le autorità tunisine lo hanno avvisato il giorno del naufragio e il centro ha immediatamente offerto «assistenza e competenze», si legge nel comunicato.

Al momento, però, rimane «in standby per una possibile mobilitazione» perché questa non è ancora stata richiesta da Tunisi. Nonostante 750 tonnellate di idrocarburi siano una quantità molto grande: l’International Tanker Owners Pollution Federation (Itopf) include sversamenti superiori alle 700 tonnellate nella categoria più alta. Lo scorso anno a livello globale si è registrato un solo incidente di tali dimensioni e nel 2020 nessuno.

Ad alzare la voce sono le organizzazioni non governative. Greenpeace chiede di «intervenire urgentemente per prevenire un disastro ambientale». Réseau Tunisie Verte, una rete di un centinaio di Ong ambientaliste, ha espresso stupore per l’autorizzazione a effettuare delle riparazioni nel porto di Sfax concessa il 4 aprile scorso senza che fosse verificata l’autenticità dei documenti di bordo, «nonostante i sospetti che aleggiano sulla nave in merito al mancato rispetto delle procedure di sicurezza».

La Xelo, che ha la bandiera della Guinea Equatoriale, era stata detenuta per 15 giorni nel porto greco di Neapolis a febbraio. Le erano state contestate 15 irregolarità e gli ispettori avevano trovato documenti falsi e certificati in scadenza. Nel 2017 la stessa nave, che all’epoca si chiamava Liman e batteva bandiera russa, era finita nella lista nera delle autorità ucraine per la violazione di disposizioni sul commercio con la Crimea.

Intanto è stato confermato quanto anticipato da il manifesto Radio Radicale: l’imbarcazione non proveniva da Damietta, come sostenuto dalla proprietà di Star Energy Inc. e ripetuto da Tunisi. L’autorità del porto egiziano ha dichiarato che lì «non è mai stata ricevuta». L’ultima meta in cui è stata per certo è Sfax. L’8 aprile era ancora nella baia, poi è scomparsa dai radar.

Una fonte che sta seguendo le indagini a Gabès ha riferito a questo giornale che la nave era assicurata fino al 26 aprile e che al momento del naufragio a bordo non c’erano i documenti necessari per il trasporto di idrocarburi. Avrebbero dovuto indicare venditore, trasportatore e acquirente, ma nelle carte non è stato trovato nulla. Per questo circola il sospetto che il caso si inserisca nel traffico illecito di petrolio che parte dalla Libia ed è stato più volte denunciato da agenzie Onu e inchieste giornalistiche. Anche con specifico riferimento al golfo di Gabès.

Al momento le uniche informazioni sulla quantità del carico vengono dall’equipaggio e non sono state confermate. Non è chiaro nemmeno che tipo di idrocarburi fossero presenti nelle cisterne, un dettaglio importante perché in caso di sversamento le conseguenze sarebbero molto diverse in base al prodotto.

Stante le informazioni disponibili, comunque, a poche decine di migliaia nautiche da Lampedusa c’è una bomba ecologica che è interesse di tutti disinnescare. In questo senso sarebbe auspicabile una maggiore pressione delle autorità italiane, e in particolare del ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, su quelle tunisine. In mare non ci sono confini e se quel carico finisse in acqua danneggerebbe irrimediabilmente l’ecosistema delle diverse sponde del Mediterraneo.