Dopo oltre tre mesi di proteste e 61 morti per mano delle forze militari e di polizia, la presidente Dina Boluarte è ancora al suo posto e il Congresso è più saldo (e più screditato) che mai. “Que se queden todos”, che tutti restino al loro posto, è stata la beffarda risposta delle istituzioni al “que se vayan todos” gridato dalla popolazione peruviana. E mentre le elezioni anticipate diventano sempre più un miraggio, il governo sembra aver imboccato decisamente un cammino autoritario, come ci ha spiegato la politologa, antropologa e docente della Pontificia Università Cattolica del Perù Carmen Ilizarbe.

La stampa peruviana ha smesso di parlare delle proteste. La mobilitazione si è conclusa?

Le proteste si sono indebolite perché costa molto sforzo portarle avanti per un tempo così prolungato, tanto più quando la repressione è brutale come in questo caso. Nei primi tre mesi del governo Boluarte se ne sono registrate 1327. Credo che continueranno, ma con intensità variabile, a seconda delle misure che adotterà il governo e della capacità di coinvolgere settori della classe media rimasti finora alla finestra. Una cosa, però, è chiarissima: il governo Boluarte non riuscirà mai ad avere legittimità sociale, né potrà farlo il congresso. La situazione è totalmente precaria: resta da capire chi resisterà di più, se il governo o i manifestanti.

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Nessuna delle richieste è stata accolta: niente elezioni anticipate, niente referendum per l’Assemblea costituente, niente rinuncia di Boluarte e chiusura del congresso. Il bilancio può essere considerato fallimentare?

Le proteste hanno ottenuto un risultato importante: quello di delegittimare il governo di Dina Boluarte e il congresso che si nasconde dietro di lei. Se non cadono è solo per il potere delle armi. Quello guidato da Boluarte è un governo che continua ad accumulare morti, uccisi a colpi di arma da fuoco dalle forze di polizia. E ha una pessima immagine anche in campo internazionale. Quindi io non direi che le proteste non abbiano ottenuto nulla: hanno espresso il fortissimo malessere e la profonda indignazione della gente.

Cosa hanno mostrato di nuovo queste proteste rispetto al passato?

La prima novità è che a guidarle sono organizzazioni contadine principalmente quechua e aymara, anziché quei settori urbani della classe media di Lima che si sono mobilitati in passato in difesa della democrazia. In questo caso non solo la leadership è dei settori rurali, ma va anche evidenziata la forte visibilità assunta dalle donne, principalmente indigene.
L’altra grande novità è che è cresciuta molto la richiesta di un’Assemblea costituente, che finora non era mai stata forte in Perù. E questo perché la gente è diventata più consapevole del circolo vizioso istituzionale che si è stabilito nel paese – in cui i presidenti restano al potere quel tanto che permette loro il congresso – e ha aperto gli occhi sulla necessità di una rifondazione completa del sistema politico. Il tutto mentre il congresso sta intervenendo sulla Costituzione vigente alterando a proprio vantaggio l’equilibrio dei poteri, annullando nei fatti il diritto a quell’imprescindibile strumento di democrazia diretta che è il referendum e minacciando le istituzioni elettorali. È un congresso estremamente pericoloso, perché sta prendendo il sopravvento sugli altri poteri, calpestando duecento anni di tradizione presidenzialista.

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Quindi è il congresso che comanda realmente.

È questa la percezione della cittadinanza, la quale infatti esige che Boluarte rinunci anche perché così verrebbe sciolto il congresso, il cui tasso di disapprovazione è del 91%. Del resto, il grido “que se vayan todos” era espresso dalla grande maggioranza di peruviani anche prima della caduta di Pedro Castillo. E invece il congresso è ancora lì e intende restarci fino al 2026.

Le elezioni anticipate possono offrire una soluzione anche senza referendum per l’Assemblea costituente?

No, perché si tratterebbe degli stessi giocatori e delle stesse regole del gioco. Non cambierebbe assolutamente niente. Perché è chiaro che qualunque persona si troverà a governare il paese sarà sempre in balia delle decisioni di un congresso a cui possono accedere solo organizzazioni di carattere mafioso. Non c’è modo di produrre un cambiamento attraverso la via elettorale. Questo è il dramma del paese: non esiste una soluzione reale all’interno del quadro istituzionale vigente.

Le forze che protestano parlano di una dittatura civica-militare-imprenditoriale. È così?

Quello che è evidente è che il governo ha assassinato cittadini e ha imposto un regime di eccezione, sospendendo i diritti e le libertà fondamentali praticamente dal terzo giorno del suo insediamento. Sono le forze militari e di polizia, non più le autorità civili, a esercitare direttamente in alcune regioni il controllo dell’ordine sociale, in base alla stessa logica dei tempi del conflitto armato interno. È un governo che uccide, come indica in maniera chiarissima il caso di Rosalino Flores, la vittima numero 61 delle forze dell’ordine, colpito da 36 piombini a meno di tre metri di distanza – il video che lo riprende è chiarissimo – e morto dopo due mesi in agonia. C’è stato un momento in cui lo stato d’emergenza era esteso a tutto il paese. Ed è una misura incostituzionale, perché può essere adottata solo in situazioni che presuppongono un rischio per l’intera nazione, per la società, non per il governo di turno.

Ci sarà giustizia per le vittime?

Dopo più di tre mesi di repressione, non ci sono responsabili, non sono state avviate indagini, né alcun ministro è stato chiamato a riferire al Congresso. La procuratrice generale, Patricia Benavides, ha indebolito la Procura dei diritti umani e potenziato quella che indaga sul terrorismo. E innumerevoli cittadini coinvolti nelle proteste vengono accusati di terrorismo. Il suo curriculum, del resto, lascia molto a desiderare, considerando che ha licenziato il pubblico ministero che stava indagando su sua sorella per presunti collegamenti con un’organizzazione criminale.