Bruci pure la città: Dina Boluarte resta al suo posto, sorda al clamore del popolo peruviano, alla rabbia del Perù profondo andata in scena nelle prime 24 ore di quella che è stata chiamata «toma de Lima».
Di fronte a quella rabbia, non è bastato militarizzare la capitale per impedire gli scontri tra i manifestanti e gli agenti di polizia, con i primi impegnati ad avvicinarsi ai palazzi del potere e i secondi determinati a sbarrare loro il passo, sparando gas lacrimogeni e proiettili di gomma: a corta distanza, per fare più male. Il bilancio: 18 feriti tra civili e poliziotti, traumi oculari, 16 attacchi ai giornalisti e un incendio di grandi proporzioni nei pressi di plaza San Martín, probabilmente innescato da una bomba lacrimogena (la polizia, naturalmente, nega).

FUORI DALLA CAPITALE, lo stesso scenario in vari punti del paese, dove i blocchi stradali sono saliti quasi a 130 in 18 regioni peruviane e gli scontri si sono concentrati in particolare intorno agli aeroporti di Arequipa, Cusco e Juliaca.
Asserragliata nel palazzo, la presidente rivolge il suo messaggio alla nazione. Non una parola di autocritica, non un riferimento alle oltre 50 vittime: la colpa è tutta dei manifestanti, colpevoli di vandalismo contro la sacra proprietà privata e di violazioni dello stato di diritto, oltre che, evidentemente, di ammazzarsi tra di loro, dal momento che, assicura, non è stato né l’esercito né la polizia a usare armi da fuoco. Colpevoli e manovrati: «Chi li finanzia?», chiede, «perché non stanno a lavoro e hanno abbandonato la famiglia?».

NON LA PENSA COSÌ, però, il procuratore Eduardo Poblete Barberis, a capo della procura di prevenzione del delitto di Cuzco, il quale, alla domanda su presunti finanziamenti ai manifestanti, sui quali tanto ricama la stampa di regime, dice semplicemente che «non ci sono prove» e, a quella sulle vittime di armi da fuoco, lascia intendere che la polizia le ha nascoste durante le ispezioni.
Boluarte, tuttavia, dice che tutto «è sotto controllo». E, insiste, «gli atti di violenza generati nel corso di questi giorni non rimarranno impuniti»: il governo agirà con rigore entro i limiti di legge. E intanto estende lo stato di emergenza, già in vigore a Lima, Callao, Cuzco e Puno, ai dipartimenti di Amazonas, La Libertad e Tacna, per 30 giorni. Un intero mese in cui saranno sospesi i diritti costituzionali relativi all’inviolabilità del domicilio, alla libertà di transito per il territorio nazionale, alla libertà di riunione e alle libertà personali.

QUANTO A UNA POSSIBILE rinuncia, la scarta con decisione, malgrado a chiederla sia più del 70% della popolazione. Il braccio di ferro con i manifestanti, a cui sta giungendo la solidarietà da ogni parte del mondo, lei è sicura di vincerlo, perché il governo – ma sarebbe più corretto definirlo un co-governo con la destra nel segno di un progetto di restaurazione del regime fujimorista – «è solido e più unito che mai».

UNA VITA sembra passata da quando, candidata alla vicepresidenza in coppia con Pedro Castillo, puntava il dito contro i ricchi, accusandoli di essersi ulteriormente arricchiti durante la pandemia, e contro le transnazionali, colpevoli di portarsi via il 70% dei profitti. E da quando, subito dopo la vittoria elettorale, veniva inseguita dai simpatizzanti del fujimorismo fino alla porta di casa, in mezzo ai più pesanti insulti.

NEL MOMENTO decisivo, subentrata a Castillo dopo il suo suicidio politico – quell’incostituzionale scioglimento del Congresso deciso in totale solitudine (benché auspicato dalla schiacciante maggioranza della popolazione) – ha scelto invece di difendere gli interessi dell’oligarchia contro cui si era schierata. Mettendo subito in chiaro la situazione fin dal suo primo discorso: contro il «que se vayan todos» di una popolazione sempre più esasperata, il «restiamo tutti fino al 2026», e poi, sperando così di risolvere tutto, fino al 2024.