«Mettiamola così, il presidente Trump è come un mezzofondista che corre forte per quasi tutta la gara ma poi si ferma all’improvviso sulla pista e non taglia il traguardo». Il professor Eytan Gilboa, del Centro di studi strategici BeSa di Tel Aviv, vicino al governo Netanyahu, ci propone questo paragone con l’atletica per spiegare ciò che pensa del disimpegno degli Stati uniti dalla Siria, culminato poco più di una settimana fa nell’abbandono degli alleati curdi alla mercè dell’offensiva militare di Ankara. Il traguardo al quale si riferisce Gilboa è il pugno di ferro con la Siria, l’Iran e i suoi alleati. Trump però ha alcuna voglia di raggiungerlo e in casa israeliana è scattato l’allarme. «Netanyahu – prosegue Gilboa – ha apprezzato la decisione di Washington di sanzionare di nuovo Tehran e di minacciare la guerra. Da qualche mese però l’incantesimo è svanito di fronte alla linea rinunciataria di Trump».

 

Netanyahu ha espresso solidarietà ai curdi e promesso aiuti umanitari. I riservisti dell’esercito israeliano hanno invocato l’assistenza militare diretta ai combattenti delle Fds. Tuttavia non è tanto la sorte dei curdi, con i quali Tel Aviv ha legami da tempo – in Iraq, non nel Rojava -, a tenere in apprensione il governo Netanyahu. Per Israele il voltafaccia di Trump nei confronti delle Fds curde è solo l’ultimo episodio tra i tanti che indicano l’inaffidabilità della Casa Bianca. «Trump era l’alleato di ferro sul quale Netanyahu contava ciecamente – spiega Gilboa -, nelle ultime due campagne elettorali (9 aprile e 17 settembre) il primo ministro aveva fatto costante riferimento all’amicizia con il presidente americano che ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e la sovranità israeliana sulle Alture del Golan, ha preso a schiaffoni i palestinesi ed è uscito dall’accordo internazionale sul nucleare iraniano. Ora Netanyahu non capisce più un alleato che cambia con eccezionale rapidità le sue decisioni e altrettanto velocemente mette alla porta i suoi consiglieri e ministri».

 

«Le recenti aperture all’Iran hanno fatto venire meno le certezze – aggiunge il professor Gilboa – e a ciò si è aggiunta la mancata risposta degli Usa al recente attacco con i droni ai giacimenti petroliferi sauditi per il quale era stato accusato l’Iran. Un segno di debolezza da cui trarrà vantaggio Tehran». Gli alleati degli Stati Uniti in Medio oriente non possono più fidarsi degli Usa, dicono gli israeliani. E questo sta spingendo l’Arabia saudita – che come Tel Aviv punta sullo scontro duro con Tehran – a ridefinire le sue strategie, al punto da rivolgersi alla Russia che sta occupando lo spazio vuoto lasciato nella regione dal disimpegno di Trump. Lo confermano anche il viaggio storico di Vladimir Putin a Riyadh e negli Emirati e il ruolo svolto dalla Russia nel favorire l’accordo tra curdi e governo di Damasco.

 

Netanyahu è preoccupato anche dai riflessi che l’immagine di presidente debole e incerto in politica estera che Trump si sta cucendo addosso, finisca per danneggiarlo agli occhi dell’opinione pubblica mentre Israele non ha ancora un governo. Sono ben visibili in giro i manifesti elettorali con i due leader che si stringono la mano, con la scritta «Grazie presidente Trump». Foto diventate imbarazzanti. Netanyahu non ha criticato pubblicamente Trump dopo il ritiro Usa dal nord della Siria ma sta prendendo le distanze dalla Casa Bianca in attesa di tempi migliori. E in occasione dell’anniversario della guerra dello Yom Kippur del 1973, ha dichiarato che Israele apprezza il sostegno degli Stati Uniti ma applicherà la sua regola di base: agirà da solo contro ogni minaccia.