Il blu opaco di Joan Mitchell, e due scrittrici
Cristalli liquidi «Les Bleuets», dipinto dell'artista statunitense, amato da Lydia Davis e Maggie Nelson
Cristalli liquidi «Les Bleuets», dipinto dell'artista statunitense, amato da Lydia Davis e Maggie Nelson
Les Bleuets (1973) è il titolo di un dipinto su tela dell’artista americana Joan Mitchell (1925-1992). È composto da tre grandi pannelli orizzontali affiancati e realizzati utilizzando soltanto variazioni di blu che sembrano emergere dal bianco. Imponenti le sue dimensioni (2,80×5,7 metri). A partire dalla seconda metà degli anni sessanta, Mitchell sperimenta le potenzialità estetiche del polittico e della pittura gestuale su una superficie grande almeno quanto quella degli Espressionisti astratti di cui è l’erede.
Chi si imbatte in Les Bleuets resta raramente indifferente, ancora più se l’incontro avviene non negli spazi climatizzati del Centre Pompidou, dove è conservato, ma nell’atelier de La Tour a Vétheuil (Normandia), dove Mitchell si trasferisce nel 1967. Arrivata a Parigi poco più che ventenne, alla fine degli anni sessanta si trasferisce in un piccolo villaggio sulla Senna, a pochi chilometri di distanza da dove Monet ha vissuto alcuni anni, dopo Argenteuil e prima di Giverny (1878-’81). Nella calma del nuovo atelier e della notte, suo momento privilegiato di creazione, la pittura e i paesaggi di Mitchell diventano ariosi, malgrado l’Action Painting (Mitchell aveva esposto con Pollock nel 1951) rischi sempre di divampare sulla superficie della tela come brace.
Les Bleuets è il quadro preferito – o meglio «uno che ha avuto un significato particolare nella mia vita» – di Lydia Davis, scrittrice americana e (come il suo ex-marito Paul Auster) traduttrice dal francese. In visita al suo atelier, la prima impressione del dipinto non è memorabile («Il quadro mi piaceva molto, e pensavo che non ci fosse alcun problema nel modo in cui lo guardavo. Era quello che era, forme e colori, bianco e blu»). Lo choc estetico avviene solo quando apprende che Les Bleuets, malgrado le apparenze astratte, ha a che vedere col paesaggio circostante di Vétheuil: «A quanto pare non sapevo che un dipinto astratto potesse contenere riferimenti a un soggetto. (…) Si trattava della rappresentazione di una risposta emotiva ai fiordalisi, o di un ricordo di fiordalisi?». Evidentemente non aveva pensato che il titolo si riferisse proprio al fiore Centaurea cyanus. In questo modo coglie l’opacità della pittura: «no words, but three panels of blue and white». Il dipinto la interpella nel profondo, anche se Davis capisce presto che non c’è una soluzione, uno scioglimento della tensione tra quello che vede e quello che sa, o tra astrazione e figurazione, perché «parte della forza del dipinto stava nel suo continuare a sottrarsi alla spiegazione». È proprio questa la lezione offerta da Les Bleuets: di alcune esperienze – estetiche ma non solo – non si dà ragione: «è stata questa nuova tolleranza e poi soddisfazione per l’inspiegabile e per l’irrisolto a segnare un cambiamento in me».
Non c’è dubbio che il turbamento quanto l’insegnamento che Davis trae da un singolo dipinto esulino dalle intenzioni della sua fautrice. Eppure è curioso che proprio lo stesso dipinto di Mitchell abbia ispirato un’altra scrittrice americana, Maggie Nelson, che ha intitolato un suo libro del 2009 Bluets (Nottetempo 2023) o, in italiano, centaurea, che indica un genere di piante di cui il fiordaliso è una sottospecie. Se tutto il libro ruota tutto attorno al colore blu, è avaro di dettagli quando si tratta di pittura. Davanti al monocromo di Yves Klein, che Nelson vede alla Tate di Londra dove, ci dice, si reca appositamente, annota sul suo taccuino una sola parola: «troppo» (forse due in inglese: «too much», ma il risultato cambia poco). E su Les Bleuets silenzio, sebbene ribadisca trattarsi di «uno dei miei quadri preferiti di tutti i tempi», realizzato il suo stesso anno di nascita. Che Nelson abbia fatto tesoro della lezione di Davis?
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