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Pascale Casanova, prezioso incunabolo o splendida rovina? Chi leggerà vedrà

Pascale Casanova, prezioso incunabolo o splendida rovina? Chi leggerà vedràDominique Gonzalez-Foerster, «2058 (Bibliography)», 2012

Casi della critica Apparentemente relativistico, il celebre saggio di Pascale Casanova, datato 1999 e tradotto ora da nottetempo, resta un libro del tutto francese, se non parigino: «La repubblica mondiale delle lettere», con introduzione di Franco Moretti

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 15 ottobre 2023

«Ogni tanto, ma di rado, esce un libro che cambia il modo in cui una disciplina lavora. Trent’anni fa, quello di “letteratura mondiale” era un concetto da museo, scomparso dal dibattito critico; oggi ne è al centro, e il merito è del libro che avete tra le mani». Così Franco Moretti nella sua postfazione a La repubblica mondiale delle lettere, di Pascale Casanova, uscito in Francia nel 1999, tradotto un po’ dappertutto durante gli anni Zero, ma arrivato da noi solo adesso, grazie a nottetempo, in una edizione a cura di Cecilia Benaglia (pp. 628, € 27,00).

Il giudizio di Moretti, così secco e incisivo, viene da uno studioso a sua volta  protagonista del dibattito che proprio Casanova ha avuto la forza di aggiornare e riproporre; dal suo bilancio escono valorizzati soprattutto il coraggio, la chiarezza e per così dire la gittata, davvero considerevole, della Repubblica mondiale delle lettere. E certo pragmatismo e coraggio non sono mancati, in vita, a Pascale Casanova, scomparsa troppo presto nel 2018: comparatista, critica letteraria, a lungo animatrice per il canale radiofonico France Culture, la sua scrittura appare naturalmente vocata alla visione interdisciplinare, alla sintesi intelligente e veloce, al grande quadro d’insieme. Nelle circa seicentocinquanta pagine che lo compongono, la Repubblica abbozza nientemeno l’ipotesi di una storia e teoria dei rapporti che legano le diverse letterature del pianeta: «occultata dall’appropriazione nazionale (e quindi politica) pressoché sistematica dei fatti letterari», questa storia non era mai stata veramente scritta con una attenzione materialistica a quella che Casanova definisce la sua «struttura diseguale». Il modello principale, del resto, è desunto da studi storici, non letterari – da Braudel, in particolare, che ispira a Casanova l’idea di un ambiente culturale unificato, e unificabile, eppure appunto diseguale, in cui un centro ristretto e mutevole muove i fili simbolici e invisibili di una larga periferia.

Una prospettiva spaziale, ricca di discontinuità, integra quindi quella cronologica, solo apparentemente progressiva: al piano della storia si somma il piano della geografia (di metafore topografiche il libro abbonda), alla critica letteraria si aggiunge la sociologia – insomma a Braudel si accosta Bourdieu, di cui Casanova è stata allieva e dal quale ha tratto la nozione di ‘campo’, che nelle Regole dell’arte aveva definito la modernità letteraria francese all’insegna della nascita del concetto di autonomia dell’arte. Casanova ne desume la possibilità di tracciare per sommi capi uno spazio letterario mondiale, unificato in epoca moderna dalla fede in una letteratura autonoma dal potere economico e politico. Su questa base, cerca di mettere in comunicazione autori e opere disparati attraverso l’identificazione di dinamiche insieme estetiche e geopolitiche, analizzate nel corso del tempo. Come in Braudel, la storia letteraria si svolge senza accordare meccanicamente la logica dell’arte a quella della struttura socio-economica; come in Bourdieu, lo spazio letterario è definito soprattutto da logiche competitive, da rivalità, da guerre che oppongono non solo singoli artisti o movimenti, ma interi Paesi. L’economia dell’universo letterario è insomma raffigurata come uno scontro la cui posta in gioco è la conquista del valore specifico interno allo spazio letterario mondiale, il bene comune rivendicato e accettato da tutti: « ciò che Valéry chiama il “capitale Cultura o Civiltà” e che è anche il bene letterario ».

Come in Bourdieu, l’attenzione di Casanova è principalmente rivolta ai cosiddetti ‘nuovi entranti’, scrittori e scrittrici che lottano per un riconoscimento da cui si sentono esclusi; e l’entusiasmo è riservato ai momenti di rivoluzione che attraversano opposizioni ricorrenti (tra forze centripete, orientate verso il polo autonomo e unificatore, e forze centrifughe, legate al polo degli spazi nazionali e delle letterature popolari). Mentre l’ammirazione più sincera va agli artisti del tipo che Bourdieu stesso, ancora nelle Regole dell’arte, definiva ‘nomoteti’ – artisti innovatori, irrequieti se non rivoltosi, a diverso titolo nomadi, capaci di spezzare antichi equilibri estetici e inventarne, anzi imporne, di nuovi; meglio ancora se questi artisti si trovano a cavallo tra mondi linguistici e culturali diversi, tra periferie d’origine e centri di elezione. Di qui lo spazio speciale concesso a figure come quelle di Joyce, Beckett, Kafka, Nabokov, Faulkner, Kiš, Paz, Darío e Benet: tutti nati e cresciuti ai margini della letteratura egemone, tutti tentati dall’esilio reale o simbolico – «Per gli scrittori provenienti da spazi molto nazionalizzati e miranti a una posizione autonoma – scrive Casanova – l’esilio è una scelta quasi inevitabile».

Il lettore l’avrà già intuito: questo saggio così tentato da prospettive transnazionali e decostruttive, così critico verso posizioni etnocentriche (considerate alla stregua di diaboliche invenzioni usate dal Centro per soggiogare simbolicamente le periferie culturali), un saggio insomma così apparentemente relativistico, resta paradossalmente un libro profondamente francese, se non parigino: per le sue radici ostinate, per i gusti elitari, per le categorie sociologiche invocate.

Il saggio di Casanova gira infatti attorno a un’idea di letteratura autonoma, che proprio la Francia ha elaborato e difeso («i grandi protagonisti della letteratura nascono solo quando e se entrano in relazione con la forza specifica del capitale letterario autonomo e internazionale»); minimizza il valore delle scritture commerciali e popolari, le opere-merce (così rilevanti sul piano della storia materiale della Weltliteratur); fa di Du Bellay il primo accumulatore di capitale letterario della storia, e della sua Deffence et Illustration de la langue francoyse del 1549 «il punto di partenza della Repubblica mondiale delle lettere». Di questa Repubblica Parigi è naturalmente la Capitale, e i suoi letterati gli arbitri più sicuri e influenti dell’arte mondiale. In una storia letteraria descritta come una trafila di guerre culturali globali, la Francia risulta la più bellicosa delle grandi potenze, e i suoi piani strategici i più universali e, in fondo, i più lungimiranti.

Inoltre, concentrandosi quasi esclusivamente sulle poetiche, e trascurando le forme delle opere (e quindi la loro interpretazione) – la Repubblica mondiale delle lettere può confermare l’annoso sospetto di chi guarda al dibattito letterario francese odierno: e cioè che  la letteratura, in quanto fatto formale, interessi da quelle parti assai meno di un tempo, sostituita nelle battaglie per la consacrazione prestigiosa e mediatica dei letterati da una galassia scritta di presenze culturali e sociali che non hanno più bisogno di cercare uno stile, e che non amano affatto sentirsi ‘autonome’.

Ma questo riguarda la cronaca, non propriamente la storia. Anche se ha meno di venticinque anni d’età, La repubblica mondiale delle lettere è pur sempre un libro del Novecento: non solo per anagrafe, soprattutto per stile e cultura; per la sua idea alta e intransigente di arte; per il suo senso delle differenze (e delle gerarchie); per la sua ambizione al rigore e alla sintesi. Monumento controvoglia a una letteratura autonoma e nobilmente d’avanguardia, ci troviamo a contemplarlo, o a rileggerlo, in una stagione segnata dal dilagare di un’idea di arte opposta: eteronoma, identitaria, tentata dall’intrattenimento popolare e dal Midcult. Prezioso incunabolo o splendida rovina? Vedremo nel tempo come saprà invecchiare.

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