Paesi sicuri e rimpatri non c’entrano nulla
Roma-Tirana Dopo il primo flop del protocollo con l'Albania la premier Meloni e il suo governo hanno mischiato i due temi per alimentare lo scontro con la magistratura. Ma si tratta di questioni distinte
Roma-Tirana Dopo il primo flop del protocollo con l'Albania la premier Meloni e il suo governo hanno mischiato i due temi per alimentare lo scontro con la magistratura. Ma si tratta di questioni distinte
«La questione è molto più ampia dell’Albania. Perché i giudici dicono che non esistono paesi sicuri. Quindi comunico ufficialmente che nessun migrante potrà mai essere rimpatriato». Erano trascorse solo poche ore dalle non convalide dei trattenimenti nel centro di Gjader, decise dal tribunale di Roma a metà ottobre, quando la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha pronunciato queste parole. La confusione tra paesi sicuri e rimpatri è diventata subito un ritornello utile per lo scontro con la magistratura. Ma c’è un problema: il concetto di «paese di origine sicuro» non ha nulla a che vedere con la disciplina dei rimpatri.
Le direttive europee, infatti, permettono agli Stati di applicare procedure diverse per i cittadini dei «paesi sicuri» che chiedono asilo nel territorio Ue. Quella provenienza non determina il divieto per la persona di fare domanda di protezione come, viceversa, non impedisce allo Stato di effettuare il rimpatrio, alle condizioni stabilite dalla legge.
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Oltre i «paesi sicuri», tutti i problemi del protocollo con TiranaLa classificazione sulla sicurezza serve esclusivamente a rendere possibile l’applicazione di procedure speciali per l’esame delle domande di asilo. Per le istituzioni l’obiettivo è accelerare l’iter, per il cittadino straniero l’effetto è vedersi ridotte le garanzie. In questi casi, infatti, la procedura è molto rapida e spesso non consente un’adeguata preparazione o comprensione di come funziona. L’onere della prova è tutto in capo al richiedente che deve superare la presunzione di sicurezza, mentre nella procedura «ordinaria» le autorità hanno importanti obblighi di collaborazione. C’è inoltre la possibilità che la persona sia allontanata dal territorio nazionale durante il ricorso contro il rigetto dell’asilo, cioè prima che il giudice decida sul merito della domanda.
Le norme Ue consentono queste limitazioni dei diritti solo ad alcune condizioni. Fra queste, l’obbligo di basare la valutazione in merito alla sicurezza del paese su informazioni aggiornate che permettano di escludere violazioni «generali e costanti» dei diritti fondamentali (e la norma parla solo di sistemi effettivamente «democratici»). Perciò la Corte di Giustizia Ue ha ritenuto che se in alcune parti di territorio si verificano persecuzioni o ci sono conflitti armati quello Stato non è sicuro. Per lo stesso motivo i tribunali italiani hanno considerato non sicuri i paesi in cui alcune categorie di persone sono esposte a violenze e minacce, come Egitto o Bangladesh.
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Per decreto e per ricorso, le contromosse del governoNella maggior parte dei provvedimenti criticati dal governo l’effetto è stato semplicemente quello di tornare ad applicare la procedura «ordinaria» di asilo, con tutte le garanzie connesse. Tra queste anche la libertà personale. Il trattenimento in frontiera è infatti possibile, grazie al decreto Cutro, solo nelle «procedure accelerate» applicabili a chi prova a sfuggire ai controlli di confine o, appunto, è originario di un paese sicuro.
Se lo Stato di provenienza non è effettivamente tale, l’iter speciale non si può applicare e così viene meno la stessa possibilità di detenere il richiedente asilo che deve quindi essere riportato in Italia. La domanda verrà poi esaminata con la garanzia per la persona di poter rimanere sul territorio: non per sempre, come vorrebbe far credere il governo, ma almeno fino all’ultimo grado di giudizio. Nessun divieto di rimpatrio dunque, ma solo il diritto a un esame più giusto e approfondito della richiesta di protezione, coerentemente con i principi costituzionali che valgono per tutti. Almeno finora.
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