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Oltre i «paesi sicuri», tutti i problemi del protocollo con Tirana

Oltre i «paesi sicuri», tutti i problemi del protocollo con TiranaL'ingresso delle strutture detentive di Gjader, in Albania – Ansa

Il nome della legge Tanti ostacoli giuridici, a ogni livello. La copertura politica dell’Ue ancora non basta. Von der Leyen vuole perfino hub extra-Ue per i rimpatri. «I tempi, però, sono lunghi», ammettono i portavoce della Commissione

Pubblicato 4 giorni faEdizione del 22 ottobre 2024

I problemi giuridici di deportazioni e trattenimenti in Albania sono molti di più di quanto si creda e non riguardano solo il tema dei «paesi sicuri», su cui è intervenuta la Corte di giustizia Ue. Superato quello, infatti, resta ciò che prevede la normativa europea: «Gli Stati membri non trattengono una persona per il solo motivo che si tratta di un richiedente». È un principio fondamentale contenuto in due direttive: «procedure» e «accoglienza», entrambe del 2013, poi recepite nell’ordinamento nazionale.

Quella frase, con le specifiche condizioni elencate dalla seconda, significa una cosa precisa: la privazione della libertà personale dei richiedenti asilo può essere solo l’extrema ratio, «ove necessario», «sulla base di una valutazione caso per caso» e a patto che «non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive» (per esempio: obbligo di firma o dimora, garanzia finanziaria). Fatte salve queste premesse, la norma dice in quali casi il trattenimento è legittimo: determinare l’identità, evitare il pericolo di fuga, decidere dell’ingresso nel territorio nazionale, etc. Tutto ciò vale anche per le procedure accelerate di frontiera che il governo vuole delocalizzare in Albania e per le quali ha introdotto la detenzione con il dl Cutro.

Infatti anche se il duro attacco governativo è stato sferrato contro il tribunale di Roma, competente per le strutture d’oltre Adriatico, altre due corti hanno già bocciato la nuova forma di trattenimento: Palermo e Catania, relativamente ai centri di Porto Empedocle e Pozzallo. Se i giudici etnei, anticipando i colleghi del Lussemburgo, avevano stabilito che Bangladesh, Egitto e Tunisia non sono «sicuri», i magistrati del capoluogo regionale hanno seguito un’altra strada ma sono arrivati quasi sempre alla stessa conclusione: non convalida dei trattenimenti. Esaminando «caso per caso» Palermo ha valutato, in concreto, l’eventualità del pericolo di fuga. In pratica ha tenuto dietro le sbarre solo i richiedenti già rimpatriati dall’Italia e poi ritornati. Ritenendo questo comportamento indice del rischio di una nuova sottrazione ai controlli.

C’è poi un altro tema emerso dalle prime deportazioni: le vulnerabilità. Dalle procedure accelerate sono esclusi i soggetti che si trovano in tale condizione: minori non accompagnati, famiglie, donne, anziani, malati, vittime di tratta o tortura. Dopo le valutazioni nell’hotspot di Schengjin 4 persone su 16, due con problemi di salute e due minori, sono state portate a Brindisi invece che a Gjader. Il 25% del totale, non poco. Il problema, però, riguardava anche le altre: tutte venivano dalla Libia dove è ormai noto che le violenze anti-migranti sono strutturali. Per esempio il richiedente seguito dagli avvocati Gennaro Santoro e Salvatore Fachile ha detto di essere stato vittima, in quel paese, di rapimenti, violenze e schiavismo. «Non sono stati fatti approfondimenti su chi ha subito torture – afferma Fachile – Se non è successo con numeri così bassi, è difficile avvenga quando i richiedenti saranno di più e l’attenzione mediatica di meno».

Gli ostacoli giuridici sulla via dell’Albania, quindi, restano tanti, a tutti i livelli. Ieri i portavoce della Commissione hanno ribadito che sul protocollo vale sì la legge nazionale, ma «le misure delle autorità italiane devono essere pienamente conformi e non compromettere l’applicazione del diritto comunitario». Sui «paesi sicuri» hanno ricordato che, per ora, le liste sono nazionali sebbene si stia lavorando a un elenco europeo. Ma non se ne parlerà prima dell’estate 2025. Nel giugno dell’anno seguente, a meno di anticipazioni, entrerà in vigore il nuovo patto Ue immigrazione e asilo che renderà possibile la detenzione di massa di chi viene da paesi con percentuali europee di accoglimento delle domande d’asilo inferiori al 20%. Il ministro dell’Interno Piantedosi ha richiamato spesso, e anche ieri nella conferenza stampa post consiglio dei ministri, il carattere di anticipazione delle norme italiane su questa riforma. Ma, appunto, mancano due anni.

È invece dal livello politico Ue che la premier Meloni sente le spalle coperte. Sull’esternalizzazione delle procedure d’asilo e perfino dei rimpatri da Stati extra europei restano le aperture di vari governi e della presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Queste indicano la convergenza tra centro-destra e destra-destra. Anche qui, però, i tempi sono lunghi. «Stiamo discutendo degli hub per i rimpatri – hanno precisato i portavoce Ue – Ma è ancora presto».

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