Operai «esagerati» alla Fiat
Intervista Parla Mimmo Mignano, uno dei cinque lavoratori licenziati nel 2014 dalla Fiat per aver messo in scena con un fantoccio il suicidio dell’ad. Marchionne, dopo che due operai cassintegrati si erano tolti la vita. «La Fca prima ci ha tenuto nel reparto confino di Nola, poi ha fatto di tutto per tenerci fuori e ora vuole continuare a farlo. È discriminazione. Spero che i giudici lo capiranno»
Intervista Parla Mimmo Mignano, uno dei cinque lavoratori licenziati nel 2014 dalla Fiat per aver messo in scena con un fantoccio il suicidio dell’ad. Marchionne, dopo che due operai cassintegrati si erano tolti la vita. «La Fca prima ci ha tenuto nel reparto confino di Nola, poi ha fatto di tutto per tenerci fuori e ora vuole continuare a farlo. È discriminazione. Spero che i giudici lo capiranno»
Il 5 giugno 2014, cinque operai vennero licenziati dalla Fiat per aver protestato davanti al reparto logistico di Nola – succursale dello stabilimento di Pomigliano D’Arco – mettendo in scena, con un fantoccio, il suicidio dell’amministratore delegato Sergio Marchionne. Una protesta che seguiva il funerale di Maria Baratto, cassintegrata come loro, che pochi giorni prima si era tolta la vita squarciandosi il ventre con un coltello. «Non si può continuare a vivere per anni – aveva scritto – sul ciglio del burrone dei licenziamenti». Pochi mesi prima si era tolto la vita impiccandosi anche Pino De Crescenzo. Sui licenziamenti il Tribunale di Nola, diede due volte ragione all’azienda, ma a settembre 2016 la Corte d’Appello del Tribunale civile di Napoli emise una sentenza opposta, disponendo l’immediato rientro al lavoro e il risarcimento. L’azienda ricorse in Cassazione vietando loro di rimettere piede in fabbrica. In vista della sentenza di domani, ne parliamo con Mimmo Mignano, uno dei cinque operai licenziati: «Siamo arrivati fino alla Cassazione – ci dice – perché la Fiat non si ferma mai contro chi non è d’accordo con lei. Ci hanno tenuto fuori dal reparto anche se avevamo diritto di lavorare. Ci siamo presentati ogni giorno ai cancelli, ma non c’è stato nulla da fare.
Ci hanno versato il salario pieno, mentre per il resto delle maestranze il salario era falcidiato dai contratti di solidarietà». Come si spiega questo accanimento?
Secondo la Fiat siamo stati esagerati nella nostra protesta. L’azienda lo ha ribadito nel ricorso alla Corte di Cassazione dove afferma che abbiamo oltrepassato il diritto di critica. Con quel finto suicidio, che era un’invenzione satirica nata dalla disperazione e dall’invisibilità, abbiamo cercato di mettere davanti agli occhi dell’opinione pubblica la condizione di tutti quegli operai che nel 2008 sono stati mandati al «confino» nel reparto logistico di Nola. Tra i nostri compagni di lavoro ci sono stati diversi tentativi di suicido, due dei quali purtroppo riusciti. Erano forse deboli di mente? Anche le statistiche ci dicono di no. Nel 2008, la Fiat trasferì a Nola 316 operai appartenenti a due «categorie»: o erano iscritti a sindacati combattivi, o erano Rcl, «Ridotte Capacità Lavorative», scarti del sistema di fabbrica.
La direzione disse che li mandava a Nola perché a Pomigliano non c’era lo spazio per un nuovo reparto.
Un’aperta bugia. All’epoca a Pomigliano eravamo meno di 6mila, in uno stabilimento costruito per più di 15mila dipendenti. La Fiat mandò a Nola quelli che considerava «scarti», per toglierseli dai piedi, isolarli e liquidarli in seguito. Tutti sapevano che prima o poi la Fiat avrebbe chiuso Nola. Con la povertà e disoccupazione, sapendo di non poter trovare un altro lavoro, per far quadrare i conti, spesso disabili, come dovevano sentirsi quei «lavoratori a termine»? Come dovevamo sentirci, tutti noi? É stata la nostra manifestazione ad accendere i riflettori sullo stabilimento di Nola e, forse, a evitarne la chiusura.
Nel corso della battaglia legale per il reintegro avete portato la vostra protesta dappertutto, persino a Sanremo.
Sempre in modo pacifico. Sempre sottolineando che ci avevano messo fuori perché fossimo di esempio per gli altri operai della Fiat, e continuando a dire che aumento dei ritmi, riduzione delle pause, annientamento dei diritti in fabbrica erano ingiusti. La realtà è sotto gli occhi di tutti. Marchionne ha guadagnato in questi anni circa 800 milioni di euro, gli azionisti Fiat si sono riempiti le tasche. Metà degli operai ha fatto la fame con la cassa integrazione e i contratti di solidarietà; l’altra metà è stata consumata dai ritmi di lavoro: a cinquant’anni la maggior parte di loro è in condizioni fisiche problematiche. Il disagio personale e familiare è aumentato per tutti.
Nella vostra rivendicazione parlate spesso delle famiglie.
Proprio qualche giorno fa, un operaio dell’ex-Fma di Avellino mi ha detto che nella nostra società la famiglia è sempre al centro delle discussioni; anche il Papa difende la famiglia; ma quale famiglia? Le famiglie operaie sono tutte in crisi, ma nessuno lo denuncia. La crisi della Fca in Italia è sotto gli occhi di tutti. Se sopravvivremo migliaia di noi verranno messi fuori dagli stabilimenti, e quelli che rimarranno saranno ancora più sottomessi alle catene di montaggio. Le fermate aziendali sono già iniziate: Enti centrali a Mirafiori, Elasis, Assemblaggio a Mirafiori, Grugliasco, Cassino, Melfi; e anche Pomigliano. Per il futuro non c’è nessun «piano industriale», nonostante le richieste dei sindacati vicini all’azienda.
L’azienda cercherà di ottenere il vostro licenziamento in Cassazione?
La Fca farà di tutto per tenerci fuori, ma ha torto su tutta la linea, e spero che i giudici lo capiranno, come lo hanno capito i giudici dell’Appello. Niente può giustificare un comportamento così discriminatorio. L’unica cosa che ha fatto Marchionne è cercare di licenziarci e i giudici della Corte di Cassazione ne dovrebbero tener conto.
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