A quattro anni dalla prima manifestazione oceanica del 22 febbraio 2019 da parte dell’Hirak, il movimento di protesta che aveva mobilitato centinaia di migliaia di persone per il «cambio del sistema a favore di uno stato libero, democratico e non militare», il clima politico si è oscurato in Algeria, mentre il regime intensifica la sua caccia agli ultimi nuclei della protesta.

Di fronte a questa progressiva repressione, gli attivisti hanno optato per l’esilio, fuggono in massa da un’Algeria in cui atmosfera è diventata sempre più «irrespirabile». «Non ho mai voluto lasciare l’Algeria. Questo è il mio paese, la mia terra, dove ho combattuto. Me l’hanno imposto le circostanze, ho dovuto scegliere tra la prigione o l’esilio», ha affermato, lo scorso martedì, in un’intervista al quotidiano Le Monde l’attivista Amira Bouraoui al suo arrivo in Francia.

Il giorno prima era sbarcata a Lione da un aereo partito da Tunisi, dove era in stato di fermo in attesa di essere estradata verso Algeri. Solo l’assistenza diplomatica di Parigi, relativa al suo status di cittadina franco-algerina, ha convinto la presidenza tunisina a non consentire l’estradizione, innescando una nuova crisi diplomatica tra Parigi e Algeri.

CON L’HIRAK, che ha segnato «un terremoto e uno scuotimento» senza precedenti della società algerina, ogni speranza sembrava permessa. Da qui il «dolore del disincanto» quando il regime, aiutato dal Covid-19 nella primavera del 2020, ha gradualmente riconquistato il vantaggio, stringendo giorno dopo giorno un cappio di sicurezza attorno a un movimento ormai impotente.
Misure sempre più restrittive hanno portato alla chiusura di numerose associazioni della società civile e all’arresto di centinaia di attivisti e giornalisti.

«Il deterioramento della situazione dei diritti umani in Algeria è più preoccupante che mai», hanno condannato numerose Ong, con ancora «300 prigionieri di coscienza attualmente incarcerati e decine di attivisti pro-democrazia convocati dalla polizia per ricevere il divieto di lasciare il paese».

Il recente scioglimento della Lega algerina per i diritti umani (Laddh), a fine gennaio, evidenzia «l’escalation repressiva del regime in Algeria». I vertici della Laddh, attualmente in esilio in Francia e Belgio, hanno appreso la notizia dai social «senza aver ricevuto mai nessuna notifica ufficiale», con una condanna di chiusura motivata dal «mancato rispetto da parte dell’organizzazione dei testi vigenti che disciplinano le associazioni».

«La logica repressiva del regime ha eliminato qualsiasi voce discordante, ha dichiarato Saïd Salhi, vicepresidente della Laddh, attualmente in esilio in Belgio. Salhi dubita di un esito positivo per un possibile appello da parte della Ong, fondata nel 1985 e sopravvissuta al decennio nero (la guerra civile degli anni ’90), indicando che il regime «non ha mai tollerato la Laddh per la cattiva pubblicità a livello internazionale».

SCIOLTE ANCHE decine di strutture chiave della lotta democratica in Algeria, come il Rassemblement actions jeunesse (Raj) e l’associazione Sos Bab-El-Oued. Da fine dicembre chiusa definitivamente anche l’agenzia stampa Interfaces Médias – network che riunisce Radio M e Maghreb Émergent, considerati gli ultimi spazi indipendenti in Algeria – con l’arresto del giornalista fondatore Ihsane El-Kadi, condannato per «attentato all’integrità dello stato».

La sua vera colpa: aver coperto mediaticamente tutte le voci dissidenti nel paese e criticato la gestione autoritaria del presidente Abdelmajid Tebboune che ha causato la chiusura di altri giornali indipendenti come Liberté o lo storico El Watan.

Una conferma del duro clima di repressione sono anche i due disegni di legge sul «diritto di sciopero» e «l’esercizio dei diritti sindacali» che hanno suscitato forti critiche da parte delle organizzazioni sindacali algerine. In un comunicato congiunto, l’Unione generale dei Lavoratori algerini (Ugta) e la Confederazione dei sindacati algerini (Csa), hanno indetto per la prossima settimana uno sciopero generale in tutto il paese per contrastare due provvedimenti che non hanno altro obiettivo se non quello «di limitare le conquiste democratiche dei lavoratori algerini».