La casbah di Algeri negli anni Novanta
La casbah di Algeri negli anni Novanta – Getty Images
Cultura

Frédéric Paulin, la sconcertante memoria del noir

L'intervista Parla lo scrittore francese, autore di «La guerra è un inganno». Un romanzo che evidenzia le responsabilità di Parigi nella genesi del terrorismo jihadista nell’Algeria anni ’90. «Mi occupo di eventi violenti, ma soprattutto di momenti dimenticati della storia del mio Paese. Con i miei romanzi cerco di rispondere alla domanda: come siamo arrivati fin qui?»
Pubblicato 4 mesi faEdizione del 10 luglio 2024

Il tenente della Dgse Tedj Benlazar potrebbe essere scambiato per un allarmista, pronto a scorgere tracce del peggio anche di fronte ad una scena idilliaca.

Come operativo dell’intelligence francese ad Algeri all’inizio degli anni Novanta, il suo problema principale è però quello di muoversi in uno scenario dove gli eventi tragici cominciano a ripetersi con una tale drammatica successione da rendere difficile a chiunque fare qualsiasi tipo di previsioni. Specie se le proprie indagini devono orientare le scelte politiche di un governo, come quello di Parigi, che per ignavia, calcolo politico e chissà cos’altro di inconfessabile, non sembra davvero interessato a fermare la minaccia jihadista che cresce in Algeria e che non tarderà a proiettare la propria ombra sinistra anche sul suolo francese.

Con La guerra è un inganno (traduzione di Giovanni Zucca, e/o, pp. 382, euro 19, 50), primo capitolo della trilogia dedicata proprio al detective Benlazar, Frédéric Paulin presenta ai lettori italiani il suo inedito impasto di noir e spy story, geopolitica e romanzo d’avventura che ne hanno fatto, grazie ad una ventina di romanzi e altrettanti racconti, uno dei protagonisti del nuovo poliziesco transalpino.

«La guerra è un inganno» è il primo tra i suoi romanzi dedicati al terrorismo jihadista che esce in Italia: la vicenda ha luogo nei primi anni ’90 in Algeria ma – di libro in libro – giungerà fino alle stragi compiute nel 2015 a Parigi. Oggi che quell’orrore appare, almeno sulla carta, lontano, quali interrogativi sul presente ci consegna la storia?

Ho la certezza che conoscere la nostra storia ci permetta anche di comprendere il nostro presente. L’elemento comune a tutti i miei romanzi è di evidenziare a volte la colpa, spesso la responsabilità della Francia nell’emergere di violenze parossistiche come guerre, genocidi, ma anche l’estrema repressione poliziesca.

Per quanto riguarda il mio Paese, penso che il suo ruolo di potenza coloniale nel passato e di potenza economica oggi, l’abbia spinto, e lo spinga tuttora, a scelte diplomatiche e strategiche a dir poco imbarazzanti. Così, scrivere dell’Algeria degli anni ’90 significa innanzitutto interrogarsi sul ruolo di Parigi nelle difficoltà del Paese nordafricano alla guerra d’indipendenza (1954-1962) ai giorni nostri.

Allo stesso modo, occuparsi del primo apparire del terrorismo jihadista che porterà ai drammatici eventi del 2015, significa sottolineare la cecità della nostra politica estera. Dicono che quando si cena alla tavola del Diavolo bisogna aspettarsi di pagare il conto.

Detto in modo molto schematico, questo è quello che è successo a noi quando gli attentati islamisti hanno insanguinato la capitale nel gennaio e poi nel novembre del 2015. Del resto, non era la prima volta che la Francia veniva colpita in questo modo: proprio in questo libro mi occupo degli attacchi compiuti da un gruppo islamista guidato da Khaled Kelkal nel 1995.

Frédéric Paulin, foto di Julien Lutt

Anche se il romanzo è uscito originariamente nel 2018, affrontare i drammatici e contraddittori rapporti tra la Francia e l’Algeria resta di grande attualità visto anche il dibattito intorno all’«identità» e all’immigrazione che ha caratterizzato l’ascesa elettorale del partito di Le Pen. La storia che racconta ci può aiutare a comprendere cosa è accaduto nella società francese?

Penso di sì. La crescita del terrorismo islamico cui abbiamo fatto riferimento, ha portato una parte significativa dei politici, ma anche dei vertici della polizia e dei servizi di sicurezza, a condurre una dura repressione verso tutto ciò che poteva essere considerato potenzialmente terrorista.

Il mantenere l’ordine, il tema della giustizia e la stessa agenda politica di molte formazioni e partiti ha dovuto rispondere a un’accentuazione securitaria sempre più pressante.

E personalmente sono convinto che in campo politico, come nel marketing, alla fine l’offerta preceda la domanda: bisogna mostrare il prodotto e farlo conoscere in modo che il cliente lo compri e lo continui a chiedere. È così che la sicurezza (e il suo frequente corollario, la xenofobia) sono diventati il tema centrale del dibattito politico del nostro Paese.

Nel 2021, in «La Nuit tombée sur nos âmes» (inedito in Italia), ha raccontato gli eventi drammatici del G8 di Genova cui aveva partecipato venti anni prima. In seguito ha scritto noir ambientati in Algeria, Libano, ex Jugoslavia, Ruanda: qual è il rapporto tra romanzo poliziesco, storia e memoria?

Più che di romanzi polizieschi parlerei di noir. E, forse, di romanzo tout court che, credo, possa davvero svolgere un’opera di memoria. Lavorando sulla Storia, mettiamo in discussione il presente. E il romanzo storico noir è uno strumento per indagare il nostro tempo.

Mi occupo di eventi violenti, ma soprattutto di momenti dimenticati della storia francese. In sintesi, attraverso i miei romanzi cerco di rispondere alla domanda: come siamo arrivati fin qui?

In un’intervista a «Libération» ha affermato che per lei «il noir è il vero romanzo engagé (impegnato, ndr)». Cosa prova guardando a quanto è accaduto nel suo Paese e quale romanzo scriverebbe ora per esprimere il suo stato d’animo?

Quando vedo l’abisso su cui ci siamo affacciati il 7 luglio, quando l’estrema destra ha sfiorato la maggioranza assoluta all’Assemblea nazionale, e quindi la possibilità di formare un governo, fatico a trovare le parole. Appartengo alla generazione che, da adolescente, ha visto l’emergere del Front National, che da giovane ha manifestato nel 2002, in vista del secondo turno delle elezioni presidenziali, contro la possibilità che «a passare» fosse Jean-Marie Le Pen, e che ha assistito, ormai come padre di famiglia, all’arrivo in forze del Rassemblement National.

Francamente sono sbalordito e mi sento responsabile per aver permesso che ciò avvenisse. Perché è stata la mia generazione a rendere possibile l’ascesa dell’estrema destra. È la mia generazione che ha accettato i compromessi fatti dalla destra e dal movimento di Macron con il Rn che è l’erede di un partito fondato da ex Waffen Ss, membri della Milizia di Vichy e dell’Oas.

Comunque, sto anche pensando di scrivere un romanzo sul periodo appena trascorso (quello che va dal risultato delle europee e lo scioglimento dell’Assemblea nazionale, fino alle legislative e alla (relativa) sconfitta dell’estrema destra. Forse per lasciare un segno, una forma di monito alla generazione dei miei figli (che hanno 10 e 14 anni). Perché si sa, il ventre della bestia è sempre fecondo…

Tornando a «La guerra è un inganno», dal romanzo sembra emergere come la violenza del Gia e degli altri gruppi terroristici fosse anche, se non principalmente, manovrata dai militari algerini. Eppure la matrice ideologica di quel fenomeno continua ad alimentare il terrore dal Caucaso al Medioriente: che idea si è fatto?

È un tema che meriterebbe una riflessione più ampia. Mi limiterò a dire che non sono convinto che le cosiddette guerre di religione siano prima di tutto delle guerre di religione.

L’apparente opposizione religiosa degli islamisti che attaccano l’Occidente o Israele o quella tra sunniti che attaccano gli sciiti, o viceversa, o qualsiasi gruppo che ne attacca un altro, non mi sembra giustificata. Innanzitutto ci sono ragioni sociali, politici e storici. La religione è spesso una scusa per fare la guerra e demonizzare un altro Paese, un altro gruppo.

Nel caso della guerra civile algerina degli anni ’90, il modo in cui i generali al potere manipolarono gli islamisti del Gia rispondeva ad una tattica antica come il mondo (che anche l’Italia ha conosciuto): la strategia della tensione. Si trattava di mantenere un livello di violenza che legittimasse il potere dei militari.

Perciò, certo, l’islamismo radicale continua ad uccidere nel Caucaso, in Medioriente e altrove. Ma senza cercare delle scuse per tutto ciò, o minimizzare il fenomeno, dobbiamo sempre chiederci da cosa nasca questa violenza.

Il tenente della Dgse Tedj Benlazar non sembra possedere alcuna delle certezze, sia sul piano personale che professionale, che si è soliti attribuire alle spie. Come è nata e cosa esprime la sua figura?

Innanzitutto, suo padre è algerino, sua madre francese: in lui si esprime così la metafora di questo antica relazione tra Francia e Algeria, di questo rapporto di amore-odio, ma, soprattutto, il ruolo e l’influenza della Francia sull’Algeria. Quindi, se Tedj Benlazar non ha le certezze del tipico eroe del romanzo noir, è perché sa che il disastro si sta per produrre, anche se non ne ha le prove. E ai suoi capi, al governo di Parigi, servono delle prove per intervenire. O, almeno, è questo ciò che dicono, perché in realtà non penso non sapessero quanto stava per accadere all’epoca.

Spesso, da parte dei governi, e dei media che cercano di ridurne le responsabilità, emerge un discorso basato sul: «Non lo sapevamo». Non ci credo. Si tratti di quanto accaduto in Ruanda nel 1994, nei campi profughi palestinesi in Libano nel 1982, nella pulizia etnica nei Balcani, gli specialisti avevano già fatto le loro previsioni. Ma, tutto ciò non ha impedito che queste tragedie avvenissero. Allo stesso modo, anche Tedj Benlazar non può impedire che accada il peggio, però ha cercato in tutti i modi di mettere in guardia i suoi superiori. È questo a renderlo un eroe da romanzo noir.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.



I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento