Tra i volti più noti dell’accademia statunitense, l’avvocata palestinese Noura Erakat è docente alla Rutgers University dove si occupa di diritto internazionale, giustizia sociale e critical race theory. È tra le fondatrice del think tank Jadaliyya. In questi giorni ha tenuto conferenze all’Università La Sapienza di Roma e all’Orientale di Napoli.

Ieri si commemorava la Nakba del 1948. Da decenni i palestinesi parlano di «Nakba che continua» e oggi assistiamo a eventi che finora avevamo letto nei libri o immaginato dai racconti dei rifugiati. Che significa Nakba oggi?

Una delle difficoltà giuridiche che abbiamo incontrato è stata tradurre la condizione palestinese in genocidio e apartheid. Se la nostra esperienza fosse stata riconosciuta, avremmo potuto comunicarla come «catastrofe», che è particolare ma anche universale. La Nakba non è solo pulizia etnica, ma usurpazione dell’autodeterminazione, espansione genocida e consolidamento territoriale. Il desiderio di Israele di avere più terra con meno palestinesi è una pratica costante nel Negev, in Galilea, in Cisgiordania, a Gerusalemme. Quello che vediamo a Gaza è solo una sua continuazione con mezzi di guerra. I palestinesi sono una minaccia per la sfida che pongono alla sovranità coloniale di Israele. Non per i danni che arrechiamo, ma perché sfidiamo l’ininterrotta presenza spaziale e temporale del colonialismo sionista.

Noura Erakat
Noura Erakat

Lei è parte del team indipendente che ha compiuto ricerche parallele a quelle del Dipartimento di Stato Usa sulle violazioni israeliane a Gaza. Cosa pensa del rapporto pubblicato da Washington?

Sono co-presidente di una task force indipendente che ha svolto ricerche sulla legge National Security Memorandum n. 20, che impone a tutti gli stati belligeranti che ricevono armi statunitensi di fornire garanzie sul loro utilizzo in conformità con la legge statunitense e il diritto internazionale. Novanta giorni dopo aver fornito tali garanzie, Dipartimento di Stato e Dipartimento della Difesa sono obbligati a presentare un rapporto al Congresso. La nostra task force, co-presieduta da Josh Paul, che si è dimesso dal Dipartimento di Stato a ottobre, ha prodotto un rapporto di 76 pagine per dimostrare le violazioni israeliane della legge statunitense e un allegato di 18 pagine sull’uso improprio delle armi fornite dagli Stati uniti. Anche Oxfam, Amnesty e Hrw hanno presentato rapporti. L’enorme quantità di materiale ha generato ripercussioni: il Dipartimento di Stato non poteva dire che Israele rispetta la legge di fronte a tali prove. Ma d’altra parte non voleva limitare le armi a Israele. Così da un lato afferma che è ragionevole dire che Israele stia violando il diritto umanitario, dall’altro dice di non essere sicuro se e dove siano state usate armi statunitensi.

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Il colonialismo d’insediamento contiene in sé l’elemento genocidario?

Il colonialismo di insediamento si basa sull’eliminazione dei nativi. Eppure, questa idea di eliminazione non è quella che si coglie nella Convenzione del 1948 che, pur essendo universale, era nata dopo lo sterminio di massa del popolo ebraico in tutta Europa con l’uso di tecnologie avanzate. Non sono stati riconosciuti come genocidi quelli commessi nelle geografie coloniali, le popolazioni indigene delle Americhe, dell’Australia o della Nuova Zelanda, o la tratta transatlantica degli schiavi. Per sfidare la natura genocida del colonialismo di insediamento non è sufficiente appoggiarsi al diritto internazionale, dobbiamo fare riferimento anche alle esperienze dei popoli. Il diritto internazionale ha una contraddizione intrinseca: protegge sia i diritti degli Stati intesi come forma di autodeterminazione dei popoli, sia i diritti dei popoli in sé. Ma la maggior parte dei popoli chiede diritti allo Stato che li danneggia, che è lo stesso Stato che si affida ai regimi giuridici internazionali per proteggersi da interventi esterni in nome della sovranità. Non si tratta solo di Israele e dei palestinesi o degli Usa e delle popolazioni indigene. Si tratta dell’Egitto e degli egiziani, della Giordania e dei giordani, dell’Italia e degli italiani. La maggiore fonte di danno proviene dagli Stati e la legge non risolverà questa contraddizione.

A tal proposito in un recente articolo lei scrive di come i palestinesi illuminino la natura coloniale del resto del mondo e cita altre lotte, quelle di neri e indigeni. E degli studenti, duramente repressi.

La solidarietà transnazionale precede di gran lunga il 7 ottobre. Penso al 2014, quando si unirono le lotte tra Gaza e Ferguson. Oggi noi palestinesi stiamo beneficiando di quel lavoro. Nelle università il punto centrale è che sono gli atenei stessi a chiedere alla polizia di aggredire gli studenti a cui hanno insegnato storia, critica, studi sul genocidio. Hanno insegnato loro il dissenso e la storia dei movimenti sociali. Questa repressione è grave, ma riflette una più ampia repressione dello Stato e della società, soprattutto nei paesi occidentali, con i media e le istituzioni private parte dell’apparato repressivo. E illumina anche il trattamento riservato ai palestinesi, soggetti a espropriazioni e attacchi proprio mentre le proteste in solidarietà vengono attaccate dallo Stato. La repressione illumina cosa significa essere palestinese in un modo che non è più teorico. È la stessa motivazione che porta i palestinesi da oltre 100 anni a resistere: la posta in gioco è la nostra stessa esistenza.

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L’Assemblea generale dell’Onu ha chiesto il riconoscimento dello Stato di Palestina e molti paesi occidentali oggi tornano a parlare di due stati. Riconoscere uno stato è la soluzione? O serve invece un vero processo decoloniale?

La soluzione dei due Stati è stata storicamente utilizzata come un modo per congelare la lotta per la libertà dei palestinesi, per portarla fuori dal quadro della distribuzione diseguale del potere tra oppressore e oppresso. Si parla di pace contrapponendola alla necessità di porre fine all’assoggettamento. In questo momento, l’idea dello Stato di Palestina potrebbe essere usata strategicamente, ma non accade. Ci si dovrebbe mobilitare sulla questione dell’apartheid, che offre un’enorme quantità di meccanismi per limitare Israele, per imporre boicottaggio e disinvestimento, per far risorgere i comitati istituiti per smantellare l’apartheid in Sudafrica e Namibia. Non sono convinta che il riconoscimento della Palestina come Stato sia il meccanismo per ottenere tale obiettivo, a meno che non sia associato all’imposizione di sanzioni a Israele.