In montagna si può morire. Può accadere rimanendo sepolti da una valanga di neve; cadendo da un sentiero ben tracciato (la causa più frequente) o dentro un crepaccio; scalando una parete di roccia; colpiti da un fulmine; travolti da un seracco staccatosi da un ghiacciaio, o da un torrente di fango che precipita a valle dopo un temporale eccezionalmente forte, o da una scarica di sassi. La montagna a rischio zero non esiste. In montagna i rischi si limitano, non si eliminano mai del tutto; si possono a volte prevedere ma non sempre.

La tragedia della Marmolada appartiene al novero delle imprevedibilità. Ce lo stanno spiegando, con solide ragioni e altrettanta competenza, tutti gli esperti. È una cosiddetta “via normale”, quella che porta a Punta Penia e sulla quale si è abbattuto quel seracco lungo 200 metri e largo 60, non una via per alpinisti espertissimi, di quelle classificate “molto difficili” o “estremamente difficili”. È una via escursionistica molto battuta che richiede attrezzatura da ghiaccio per la presenza di crepacci ma nulla di più.

Certo, le temperature elevate di queste ultime estati richiedono prudenza e personalmente non mi sarei avventurato su un ghiacciaio con lo zero termico ormai da giorni stabilmente sopra i quattromila metri di quota, ma queste sono scelte individuali. Tutto l’alpinismo è fatto di valutazioni e decisioni compiute in prima persona e chi lo pratica è padrone della propria anima.
Esiste però una causa per quanto è accaduto sulla Marmolada. È il cambiamento climatico e a provocarlo è l’opera dell’uomo. Questo è un fatto acquisito e riconosciuto dalla stragrande maggioranza degli scienziati che si occupano del fenomeno.

Il presidente del consiglio, Mario Draghi, lunedì è andato a Canazei, ha portato solidarietà e rincuorato le donne e gli uomini impegnati nei soccorsi e nelle ricerche delle vittime. E ha pronunciato questa frase: «Il governo deve riflettere su quanto è accaduto e deve prendere dei provvedimenti affinché non accada più in Italia».

Sarebbe però auspicabile che i provvedimenti da prendere non consistessero in una sequela di divieti e proibizioni incentrati sulle vie alpinistiche e su chi va in montagna per propria responsabile decisione. Questa sarebbe la scelta più facile e anche la più stupida. Perché il problema, la drammatica questione, è che i nostri ghiacciai si stanno sciogliendo a una velocità fino a ieri inimmaginabile e questo accade per il cambiamento climatico, non per una sciovia costruita dove non ve n’era bisogno o a causa del turismo di massa – due cose pessime, sia ben chiaro, come è pessima la scelta di trasformare le nostre montagne in un gigantesco parco dei divertimenti – ma perché il pianeta si sta surriscaldando e noi, nell’immediato, ci stiamo perdendo i ghiacciai, che non sono soltanto una meraviglia della natura ma una fondamentale riserva idrica e dunque una fonte di vita.

A stupire o a lasciarci attoniti non può, non deve essere l’imprevedibile tragedia bensì la catastrofe ambientale alla quale in questa estate torrida stiamo andando incontro con una rassegnazione che lascia basiti. Sembra di essere in una scena di Don’t Look Up, con il pianeta che sta per essere colpito da una devastante cometa e tutto avviene tra vani chiacchiericci, improbabili provvedimenti e spregiudicato cinismo. È meglio non guardare in su, verso i nostri ghiacciai: c’è da avere paura.