Non sapeva ancora dove lo stessero portando. Come tutti gli altri 221 prigionieri politici del resto, all’inizio assai preoccupati per la loro sorte. Ma giunti all’aeroporto, che porta ancora il nome del general de hombres libres Augusto Sandino, hanno tirato tutti un sospirone.

Tranne lui, monsignor Rolando Alvarez, che quando ha capito che lo avrebbero deportato ha cercato agitatamente di parlare con i sacerdoti e seminaristi che lo precedevano, ma ormai già saliti a bordo. Allora, quasi alla scaletta dell’aereo, ha chiesto di telefonare all’arcivescovo di Managua, cardinale Leopoldo Brenes. Ma gli è stato negato.

A QUEL PUNTO ha reiterato per l’ennesima volta “non voglio lasciare il mio paese”. Che era poi la soluzione che il regime orteguista aveva prospettato già da mesi nelle trattative per levarselo di torno. Con lo stesso Brenes e la segreteria di stato vaticana che lo invitavano ad accettare.

Così che il prelato è stato ricondotto in città, ma non agli arresti domiciliari dove si trovava presso la casa di famiglia, bensì direttamente al carcere capitalino de La Modelo. E dire che dall’agosto scorso, quando nella Matagalpa di cui è vescovo aveva sfidato per le strade la polizia con l’ostensorio fra le mani all’insegna del «siamo tutti fratelli», non aveva fatto ancora un solo giorno di carcere.

A differenza degli altri detenuti liberati che in galera c’erano già da almeno un paio d’anni, in condizioni disumane d’isolamento. Non solo; il giorno dopo è stato convocato un tribunale ad hoc che gli ha affibbiato tre o quattro condanne, compreso quella per “terrorismo”, per un totale di 26 anni.

Quasi tre volte quelli assegnati la settimana scorsa agli altri religiosi che invece hanno lasciato il Nicaragua. Il giudice ha rimarcato spietatamente che la sua pena sarà espiata nel giugno 2049 (quando avrà 82 anni).

COME C’ERA d’aspettarsi, domenica all’Angelus papa Francesco ha chiesto di pregare per monsignor Alvarez e «per tutti quelli coloro che soffrono in quella cara nazione». Mentre il cardinale Jean Claude Hollerich, a capo degli episcopati europei, ha parlato di «persecuzione di stato». Seguito da molte altre conferenze episcopali, specialmente dell’America Latina.

Al vescovo il governo non ha mai perdonato di aver fatto parte attiva della delegazione della chiesa cattolica locale nel dialogo per una mediazione pacifica durante la rivolta popolare del 2018.

Sta di fatto che se il presidente Daniel Ortega intendeva disfarsi dei detenuti per migliorare l’immagine del paese e rompere l’isolamento internazionale, trattenendo (suo malgrado) il personaggio probabilmente più ingombrante, rischia di aver peggiorato la sua situazione.

Anche perché c’è da essere sicuri che i 221, nella loro ampia pluralità politica, si daranno un gran da fare in giro per il mondo (magari pure organizzati) per denunciare il regime orteguista. Contribuendo a questo punto decisivamente a una sua possibile implosione.

DOPO LE RECENTI numerose rimozioni ad alto livello nel suo entourage, Ortega ha affermato che dorme la notte con un occhio aperto. Come se non si fidasse più di nessuno. Ed è il fratello di Daniel Ortega, il generale Humberto, che fu ministro della difesa per tutto il tempo della rivoluzione e che gestì la transizione pacifica con la presidente Barrios, che lo avrebbe indotto in un incontro nel dicembre scorso (dopo quattro anni che non si vedevano) a rilasciare i detenuti di coscienza.

Non è un caso che proprio dall’esercito (vera e propria potenza economica in Nicaragua) sarebbe filtrato del malessere ai più alti livelli, temendo di finire anch’esso, come la polizia, fra le entità sotto sanzioni.