Nella straniante normalità di un tabù familiare
Cannes 76 Alcuni fatti di cronaca ispirano «May December», il nuovo film di Todd Haynes in concorso
Cannes 76 Alcuni fatti di cronaca ispirano «May December», il nuovo film di Todd Haynes in concorso
Elizabeth Berry (Natalie Portman), una nota attrice hollywoodiana, si reca a Savannah per conoscere la donna sulla cui vita si basa il telefilm che sta per interpretare, Gracie Atherton-Yoo (Julianne Moore), un’insegnante che, vent’anni prima, è finita in prigione per lo stupro di un suo studente minorenne di origine coreana, Joe Yoo. In previsione dell’arrivo di Elizabeth, Gracie e Joe (Charles Melton), che oggi sono marito e moglie, hanno acconsentito ad aprire all’attrice la casa che condividono con i loro tre bambini, e a permetterle di parlare con un cerchio ristretto di amici e famigliari. Tratto da un’affilata sceneggiatura di Samy Burch, che rielabora in modo depistante fatti di cronaca analoghi a quelli che coinvolgono Gracie e Joe, come il caso di Mary Kay Letourneau, alla fine degli anni Settanta, May December è l’ultimo lavoro di Todd Haynes, presentato in concorso al festival, dove il regista arriva sulla scia di una grande retrospettiva parigina dedicatagli dal Centre Pompidou.
Julianne Moore e Natalie Portman in un racconto di traumi mai rimossi, sentimenti e dolori nascosti
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Gracie non insegna più ma ha aperto un’attività di vendita di torte fatte in casa. Joe, che non ha più il corpo di un adolescente, è un papà affettuoso e sollecito. All’orizzonte è la cerimonia di diploma dei gemelli, nati mentre Gracie era in carcere e a cui ci saranno tutti, inclusi il primo marito di lei e il figlio adulto. L’arrivo di Elizabeth porta naturalmente un elemento di nervosismo nella piccola comunità e nella vita di Gracie, da cui l’attrice assorbe progressivamente dettagli, informazione, modo di vestirsi, accento e persino colore del rossetto. Forte della qualità un po’ sfinge di Portman (che è anche produttrice del film), Haynes usa la sua presenza e le sue interazioni con i vari personaggi -che si svolgono sotto il pretesto della ricerca per il telefilm —- per mostrare le crepe che si nascondono dietro a quest’istantanea di felice banalità conquistata così faticosamente.
GRACIE forse è un mistero più complesso e sofferente di quello che sembra. Joe forse è un uomo cresciuto troppo presto. Quei clienti assidui, amichevoli, che ordinano le torte forse non esistono. E probabilmente Elizabeth non è innocua come appare. Sia Burch che Haynes lavorano sulla cifra dell’incertezza aprendo domande continue dove paiono celarsi solo risposte facili. Così la complessità umana e intellettuale del film sboccia gradualmente, con il nostro avanzare «a tentoni» nel suo apparente essere semplice.
Dopo il documentario sui Velvet Underground e il thriller legale Cattive acque, Haynes torna al genere che gli è sempre stato più congeniale, il melodramma. May December non ha lo sfondo d’epoca di Lontano dal paradiso o Carol, e nemmeno la loro sontuosità (alla fotografia non è l’abituale DP del regista, Ed Lachman, ma Christopher Blauvelt). Eppure, se qui manca la componente più superficialmente «sirkiana» del cinema di Haynes, l’assenza di quell’apparato di convenzioni, sostituito dall’immediatezza della contemporaneità rende il crescendo finale del film ancora più devastante; e la sua sensibilità, nei confronti delle circostanze e della confusione dei personaggi, un’emozione che Douglas Sirk (di cui Haynes -come Fassbinder- si considera un discepolo) avrebbe apprezzato molto.
IN UN CERTO SENSO, May December è tra i film più provocatori e aperti di Haynes. Le trame confluiscono verso la scena (quasi) finale del diploma -nella sua combinazione di gioia, dolore e innocente ritualità- spalancando una vertigine di pensieri e punti di vista contrastanti sull’amore, sulla famiglia, sulle cicatrici, le gioie e lo scotto personal/sociale di situazioni «impossibili». E sui cliché che non muoiono mai.
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