Fino a poco tempo fa, non erano pochi in Italia gli estimatori del modello “semi” (in realtà, “iper”) presidenzialistico francese. Oggi sembrano piuttosto silenziosi e imbarazzati. Ma la credenza che la “stabilità” dei governi debba essere affidata alla verticalizzazione del comando è ancora dura a morire, come dimostra l’idea (molto abborracciata, anche tecnicamente) dell’elezione diretta del premier.

Proprio la Francia ci sta dando la dimostrazione plastica dei guasti che si producono quando si pensa di sostituire alla fatica della mediazione e della rappresentanza politica, le scorciatoie di assetti istituzionali e di congegni elettorali che, alla lunga, producono una radicale delegittimazione della stessa democrazia. Il consenso introvabile nella società non può essere surrogato da un potere “assoluto”, sulla carta, ma impotente nella prassi. La parabola di Macron, da questo punto di vista, è davvero emblematica: salito sugli scudi come espressione di un riformismo tecnocratico (ma pur sempre solo con il 25% dei voti al primo turno delle presidenziali) si è trovato ben presto di fronte una società che ribolle, che nutre rancori e risentimenti, riottosa ai dettami della buona creanza riformista.

Agendo da apprendista stregone, Macron ha finito per alimentare l’ondata della destra (e legittimarne le posizioni, come sulle questioni dell’immigrazione): le sue recenti mosse nascevano, ancora una volta, dalla sua pretesa di proporsi come l’unico argine democratico alla destra. Ma il gioco stavolta non gli è riuscito: le “mosse” del Nuovo Fronte Popolare (Nfp) si sono rivelate un capolavoro di tattica elettorale, che ha scompaginato i piani del Presidente.

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L’esito finale, nel rapporto tra voti e seggi, vede una sovra-rappresentazione dell’area centrista (con il 22,8% dei voti, il 30,2% dei seggi) e della sinistra (29,9% i voti, 33,8% i seggi) e una sotto-rappresentazione del RN (33,5% dei voti contro il 24,8 dei seggi). Ma si è creata una situazione di stallo, in cui anche un eventuale governo di una delle tre minoranze è esposto alla possibile “mozione di censura” delle altre due. In definitiva, la strategie adottate (dapprima l’’accordo elettorale dentro la sinistra, e poi l’accordo di non-belligeranza con il centro) hanno quanto meno frenato i potenziali effetti distorsivi del sistema maggioritario: ma non hanno risolto il puzzle della possibili maggioranze di governo.

E qui entra in gioco non solo l’assetto istituzionale francese (che sta rivelando tutta la sua rigidità e la sua impotenza), ma anche i guasti che tutto ciò ha prodotto nella stessa cultura politica della sinistra francese. La recente intervista di Mélenchon ad un giornale italiano appare davvero sintomatica: in breve, il succo è che a Mélenchon interessa soprattutto la sfida delle prossime elezioni presidenziali (con forti accenti personalistici, sostenendo che la partita sarà tra lui e Marine Le Pen: come possa esserne così sicuro lascia molti dubbi) .

La posta in gioco immediata, un governo in coabitazione con Macron, sembra di fatto molto poco appetibile (e anche di difficile gestione: si pensi solo alla politica estera). Come ha scritto il politologo francese F. Savicki, anche la sinistra, “come gli altri partiti, è “prigioniera della centralità delle elezioni presidenziali”. E’ questo che “impedisce ai partiti di sfruttare al meglio, come in altre democrazie parlamentari, il gioco del compromesso che passa attraverso la negoziazione di un contratto di governo”.

Se è comprensibile, politicamente, che il NFP rivendichi l’incarico oggi di formare un governo, è frutto però di una deformazione “maggioritaristica” (the winner takes all), che evidentemente alligna anche a sinistra, l’idea che si possa e si debba andare al governo solo ed esclusivamente per applicare al 100% il proprio programma di governo. Un’affermazione che suona velleitaria e propagandistica: risulta più credibile Macron quando ricorda che nessuno ha propriamente vinto le elezioni. E colpisce, almeno stando alle cronache, l’assenza di una qualche iniziativa che faccia emergere le possibili divisioni del campo macroniano: che così potrà avere buon gioco, come già accaduto con la rielezione della Presidente dell’Assemblea legislativa, nel fare blocco con la pattuglia dei Repubblicani e presentarsi come il segmento più forte dell’emiciclo.

Pesa inoltre, nelle posizioni di Mèlenchon, un’antica tradizione statalista della sinistra: l’idea che, per poter cambiare veramente le cose, bisogna avere il pieno controllo delle leve del potere statale (e quindi, conquistare l’Eliseo: tutto il resto, qui e ora, è solo tattica in vista di questo obiettivo; anzi, forse è meglio evitare compromessi pericolosi). Un’idea perfettamente funzionale all’assetto “verticale” del modello istituzionale francese.

Vedremo gli sviluppi: se è essenziale che il Nfp non si divida (e sarebbe suicida farlo: tutti ne uscirebbero indeboliti), è un errore pensare che restare “con le mani libere”, non riuscire a dare uno sbocco di governo, anche parziale, al buon risultato che il Nfp ha ottenuto, possa essere la premessa per un suo futuro rafforzamento; anzi, è probabile che, dopo la forte mobilitazione sociale con cui è stata vissuta la campagna elettorale, ci possa essere un contraccolpo e possano subentrare elementi di sfiducia e di delusione, l’idea che “tanto, nulla cambia”. Speriamo che non accada.