Nel manoscritto ritrovato di Céline, un ronzìo dell’altro mondo
Félix Vallotton, «Verdun», 1917
Alias Domenica

Nel manoscritto ritrovato di Céline, un ronzìo dell’altro mondo

Novecento francese Tra pagine di perturbante bellezza e altre di pornografia, la disperata illusione di lenire il trauma nel delirio della scrittura: «Guerre», un acerbo capolavoro rinvenuto la scorsa estate in circostanze rocambolesche, ora edito da Gallimard

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 26 giugno 2022

Non sempre gli interessi degli eredi, e del mercato librario, si accordano con le ragioni della filologia. Nella scorsa estate, in modi rocamboleschi, sono ricomparsi più di cinquemila fogli manoscritti di Louis-Ferdinand Céline, abbandonati dall’autore nel suo appartamento di Montmartre, nel 1944, al momento della fuga verso la Germania nazista con la moglie Lucette e il gatto Bébert. Dopo una breve battaglia legale, la proprietà del malloppo è andata agli eredi di Lucette, scomparsa nel 2019 all’età di 107 anni.

Pochissimi hanno avuto accesso alle carte: da quello che è dato sapere, le cose più importanti sono il manoscritto di Mort à crédit, il secondo capolavoro (1936), dopo Voyage au bout de la nuit (1932); alcune sequenze di Casse-pipe, romanzo di caserma e di guerra di cui conosciamo solo le prime sessanta pagine, scritte intorno al 1937 e pubblicate nel ’48; infine, due abbozzi narrativi che hanno per protagonista Ferdinand Bardamu, alter ego dell’autore nel Voyage: il primo racconta la convalescenza del personaggio, ferito sul fronte delle Fiandre nell’autunno del 1914 (come il ventenne Louis Destouches, partito volontario per la Grande Guerra); il secondo le avventure di Ferdinand a Londra.

Gli appassionati di Céline speravano di poter leggere l’intero testo di Casse-pipe: a quanto pare, invece, ne sono riemersi solo alcuni frammenti, probabilmente non in grado di restituire un romanzo di senso compiuto. E insomma un ritrovamento così clamoroso rischiava di nutrire soltanto gli apparati delle future edizioni critiche. Non è noto quanti soldi abbia speso il maggiore editore francese per assicurarsi i diritti sulla pubblicazione: sicuramente una cifra esorbitante, che si giustifica solo a fronte della possibilità di mandare in libreria un paio di romanzi inediti, con tirature da best seller internazionale.

Trascrizione problematica
E così, a meno di un anno dal ritrovamento, esce Guerre (Gallimard, pp. 192, euro 19,00), per le cure di Pascal Fouché, con prefazione di François Gibault, l’avvocato novantenne, sedicente anarchico di destra, che insieme a Véronique Chovin ha raccolto l’eredità di Lucette. In parallelo, le Éditions des Saints Pères stampano una riproduzione del manoscritto: in vendita a 160 euro. Già a un primo sguardo, appare evidente che la trascrizione di Fouché è, come prevedibile, problematica: l’impresa avrebbe richiesto un’équipe di specialisti e qualche anno di lavoro. Il manoscritto è una stesura di primo getto, costellata di ripensamenti, cancellature, parole illeggibili.

Inizia in medias res, con un «Pas tout à fait» che Fouché non trascrive; del resto, sulla prima pagina c’è un enigmatico 10 cerchiato: il testo è acefalo. Fretta commerciale, disinvoltura filologica e scarsissima trasparenza sull’insieme del materiale ritrovato: le scelte editoriali lasciano basiti. Tanto più che la datazione proposta da Gibault e Fouché, e accolta in quasi tutte le recensioni francesi, è sbagliata: nella nota in fondo, spiego perché.

Eppure, bisogna dirlo chiaro: non sempre le ragioni della filologia coincidono con quelle dell’estetica. Sarebbe stato corretto pubblicare questi manoscritti in appendice a una nuova edizione del Voyage, non come libro autonomo; il titolo scelto da Fouché è abusivo, non figura da nessuna parte sul manoscritto e non ne rispecchia i contenuti (si parla di convalescenza nelle retrovie, non di guerra); la trascrizione è approssimativa, oltre che priva del necessario apparato critico. Tutto vero, e stupisce che nessuno studioso, in Francia, abbia avuto il coraggio di dirlo.

Però il testo pubblicato da Gallimard è un acerbo capolavoro: non solo ha pagine di abbagliante e perturbante bellezza; non solo dice molto, con insolita generosità metaletteraria, sulle ragioni profonde che portano Céline alla letteratura; offre anche un esempio fra i più caratteristici del suo ethos, della sua postura enunciativa, della respingente e indispensabile forza conoscitiva della sua scrittura.

Il ronzio del fronte
Ferdinand, ferito al braccio e a un orecchio, riprende coscienza sul campo di battaglia, fra i cadaveri dei commilitoni; al dolore per le ferite si somma un disturbo dell’udito, un ronzio che a tratti diventa frastuono, e che non lo abbandonerà più: «Mi sono beccato la guerra dentro alla testa. È chiusa dentro alla mia testa». Ogni sensazione uditiva lo riporterà al fronte: perfino il canto degli uccelli evocherà «il fischio delle pallottole». Di qui, da un trauma originario che segna il corpo e la psiche, nasce l’opera di Céline, composta di «brani d’orrore strappati al ronzio che non finisce più».

Nasce per reazione alle lettere «perfettamente scritte in perfetto stile» dal padre di Ferdinand, contro cui si scatena, in Guerre, un sarcasmo feroce – simile a quello che Gadda riserva alla retorica nazionalista di un Foscolo o di un d’Annunzio.

Gli eufemismi di una «lingua forbita, da coglioni»; la «piovra viscidissima e pesante come merda» delle buone maniere; l’«enorme ottimismo» della piccola borghesia («ingenua e putrida imbecillità»), con i suoi meschini imperativi economici (i genitori sembrano più affranti dai debiti contratti dal figlio, che dai rischi mortali che corre): è questo che rende possibile la guerra, nascondendone le atrocità, taciute perché «inaccettabili, insolubili, losche, insomma sconvenienti».

Perciò scrivere, «cercare una musica più mia, più viva, per accompagnarmi all’altro mondo», per Céline vorrà dire scardinare il bello stile imparato sui classici, costringendo le parole a aderire senza ipocrisia alla brutalità del reale. Solo nella deformazione, nell’eccesso, nell’incubo, il mondo moderno può trovare una rappresentazione non menzognera.

Primo imperativo, dunque, è dire tutto, svelare l’orrore fino in fondo, portare il lettore au bout de la nuit; nella disperata illusione di lenire il trauma nel delirio della scrittura. C’è un passo, in Guerre, che annuncia e riassume la vocazione dello scrittore: «Bisognerà che mi trovo una roba bella delirante per compensare tutta ’sta sofferenza di essere richiuso per sempre dentro alla mia testa».

Altri personaggi, e sul momento anche lo stesso protagonista, trovano forme diverse di compensazione: nell’individualismo egoista e nel sesso. Da antologia il monologo interiore di Ferdinand, quando riceve la medaglia al valore: «dormi o non dormire, vacilla, stai rintronato, traballa, vomita, sbava, ricopriti di pustole, brucia di febbre, schiaccia, tradisci, non ti fare nessuno scrupolo, dipende tutto da dove soffia il vento, che tanto tu non sarai mai così atroce e stronzo come quegli altri». Ma le pagine che Fouché ha intitolato Guerre riservano soprattutto uno spazio sorprendente a scene – fra le più riuscite – di autentica pornografia. Come nel Voyage, il carnaio della guerra dissolve ogni ideologia, ogni valore culturale, isolando il corpo inerme, fragilissimo e prezioso. Agli istinti primari è perciò affidata l’unica possibilità di resistenza: il presente è «tutto per la fica»; per raccontare un passato «truccato» dal sentimentalismo della memoria, è necessario «chiedere immediato soccorso al cazzo».

C’è un incoercibile vitalismo, in tutto Céline, perfino nelle sue pagine più cupe; ma in questo frammento inedito anche il sesso, in un diorama di perversioni (voyeurismo, sadismo, necrofilia…), al tempo stesso esilaranti e nauseabonde, comiche e sinistre, rischia a ogni frase di rovesciarsi, freudianamente, in istinto di morte.

C’è l’infermiera tardona, la L’Espinasse, che ha i denti marci e maneggia con sadismo grosse sonde uretrali, sistematicamente masturba gli agonizzanti e ci prova perfino con un morto, per poi consolarsi con Ferdinand. C’è la prostituta Angèle, «rizzacazzi dalla nascita», e lesbica per inclinazione, che si vende ai britannici e prova a ricattarli: un duplice amplesso con un vigoroso scozzese, rosso di capelli come lei, ma casto da mesi, è al tempo stesso un euforico peep show (Ferdinand sbircia estasiato, chiuso in un armadio) e un sordo teatro di violenza – l’impeto dell’uomo porta la ragazza a una sincope in cui piacere e dolore, estasi e morte si confondono. Le campane fesse del politicamente corretto non hanno perso l’occasione per evocare una sopraffazione maschile.

In realtà, non c’è lettura ‘di genere’ che tenga: perché Angèle non ha esitato a sbarazzarsi del marito-magnaccia, facendolo fucilare – l’uomo, chiamato prima Bébert e poi Cascade, si era sparato a un piede per non combattere; e soprattutto perché, come nel Voyage, tutti i personaggi principali sono vittime: «il nemico, quello vero», le vrai de vrai, è sempre e solo il generale gallonato.

Nota filologica: storia d’un inedito e della sua datazione
Gibault e Fouché datano al 1934 la stesura di Guerre. Due le prove addotte, entrambe fragilissime. Primo: in due lettere del ’34, lo scrittore dichiara di voler pubblicare Enfance, Guerre, Londres. Il libro sull’infanzia sarà Mort à crédit. Gli altri due titoli rinviano a Casse-pipe (alla lettera: tirassegno; in metafora: la linea del fuoco) e Guignol’s band (1944).

Secondo: sul verso di un foglio compare l’indirizzo californiano di Elizabeth Craig, rientrata in America nel ’33. In realtà, lo scrittore aveva l’abitudine di riciclare i suoi manoscritti: sul verso di quello del Voyage, ci sono note di fine anni Trenta.

Nel frammento inedito, luoghi e personaggi del Voyage compaiono con nome mutato: il generale des Entrayes si chiama Métuleu (anziché Céladon); l’ospedale è a Peurdu-sur-la-Lys; una volta sola a Noirceur-sur-la-Lys, toponimo del romanzo. Il deuteragonista si chiama, per quasi metà del testo, Bébert – poi diventa Cascade. Ma Bébert è uno dei personaggi più importanti del Voyage: il ragazzino di banlieue che Ferdinand non riesce a salvare. È inverosimile che Céline abbia dato lo stesso nome, tanto carico di risonanze affettive (basti pensare al celebre gatto!), a un personaggio del tutto diverso.

Una giovane studiosa, Giulia Mela, in un saggio su Guerre pubblicato dalla rivista online «L’Ospite ingrato», ricorda le lettere di Céline a Joseph Garcin (impresario di bordelli, forse modello di Bébert-Cascade) in cui lo scrittore in un primo momento (nel 1930) progetta di inserire nel Voyage un episodio fiammingo e uno londinese, ispirati ai racconti di Garcin; poi (nel ’31) ci rinuncia. Guerre è un abbozzo scartato del Voyage, scritto fra il ’30 e il ’31, in cui nomi e trame sono ancora allo stato fluido. Dev’essere stato espunto dall’autore per la sua oltranza pornografica: il Céline del Voyage era uno sconosciuto esordiente, doveva limitare gli eccessi. Questa, allo stato attuale delle conoscenze, la verità filologica: scomoda per il business di Gallimard.

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