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Paul Schrader: «Sempre meno a mio agio nel mostrare la violenza, il digitale ha cambiato tutto»Il passato pesava duramente sulla coscienza del sacerdote, del giocatore e del giardiniere figure centrali degli ultimi tre film di Paul Schrader. Il protagonista del suo nuovo lavoro, Oh Canada, in concorso a Cannes, dove Schrader non era più stato dai tempi di Patty Hearst (1988), si rivolge al suo passato direttamente, affidandolo a un film. Leonard Fife (Richard Gere, di nuovo con il regista 44 anni dopo American Gigolò) è un eroe del documentario d’inchiesta in Canada, dove si è rifugiato per protesta contro la leva in Vietnam, una scelta che – insieme a un esposè sull’uso del Napalm che avrebbe «in parte ispirato Apocalypse Now»– è diventata parte del suo mito.

GRAVEMENTE malato, alla vigilia della morte, Fife convoca un ex allievo (Michael Imperioli) e una troupe di ex studenti che hanno avuto un’autorizzaione dalla tv pubblica, per ripercorrere la sua vita, raccontandola guardando diritto dentro all’occhio dell’obbiettivo, e agli occhi di sua moglie (Uma Thurman). Per questa esplorazione della mortalità, della memoria, e del raccontare, che è poi al cuore del far cinema e ha sicuramente anche dei risvolti personali, Schrader ha scelto di adattare un romanzo dell’amico Russell Banks, I tradimenti (Foregone), dai cui libri aveva già tratto uno dei suoi film più belli Affliction (1997).
Banks, che aveva scritto I tradimenti prima di ammalarsi di cancro come il protagonista del romanzo, è morto nel 2023. Il film, che Schrader aveva iniziato prima della sua scomparsa, è dedicato a lui. Ma, se in Oh Canada (titolo che Banks voleva, ma non ha potuto dare al libro per un problema di diritti) c’è una traccia di elegia, è l’elegia affilata, provocatoria, che ci si può aspettare da un autore come questo.L’autunno della vita in una storia con protagonista Richard Gere e Uma Thurman

IL FILM apre sul rituale della preparazione di un set mentre Fife, visibilmente debole e sofferente, a sua volta, passando dal letto alla sedia a rotelle, si prepara per l’intervista, su cui aleggia fin dall’inizio l’aura di una confessione. Per riprenderla, Schrader e il suo direttore della fotografia, Andrew Wonder, hanno usato l’interrotron, il meccanismo reso celebre da Errol Morris che permette all’intervistato, in piano molto ravvicinato, di guardare direttamente in macchina, e quindi il pubblico. La sensazione di intimità che si stabilisce subito accentua la dimensione confessionale dell’intervista, il suo senso di «verità». Ed è proprio con quell’idea, che Schrader gioca per tutto il film. In apparenza, contro le aspettative della piccola troupe che ha in mente un ritratto celebratorio dal letto di morte, il regista intende decostruire il suo mito, mettere tutte le carte in tavola, rivelare a sua moglie cose che nemmeno lei sa. In realtà non siamo mai sicuri che non stia, invece, semplicemente raccontando un’altra storia. Quel senso di spiazzamento è accresciuto da tre livelli di voice over (che Schrader ama usare da sempre), da un’alternarsi di formati del fotogramma e dal passaggio tra bianco e nero e colore. Nonostante la componente teorica del film sia così visibilmente «sfoggiata», Schrader la usa con efficacia e sicurezza tali, che Oh Canada! risulta ancor più commovente. “All’inizio della mia carriera tiravo fuori la parte sanguinaria dei miei personaggi, ora non più. Trovo che oggi la violenza sia superficiale”. Paul Schrader

LA STORIA che Fife vuole raccontare inizia negli anni Sessanta, quando era un giovane, promettente accademico (interpretato da Jacob Elardi/Elvis, l’attore che, ha detto il regista, scritturerebbe se dovesse fare oggi American Gigolò), con un invito a insegnare in un piccolo college liberal del Vermont, un figlio bambino e una moglie incinta che, sotto sotto, vorrebbe che lui accettasse l’offerta di lavoro fattagli dal padre, ricco assicuratore «sudista» e poco favorevole al loro trasloco. Da quel trappolesco quadretto famigliare, scatta la prima fuga (verso il Nord) di Fife che, attraverso le parole dell’anziano documentarista, vediamo non solo piantare in asso una famiglia ma deludere l’aspettativa di sé stesso -ventilando un viaggio nella Cuba rivoluzionaria dove probabilmente non è mai andato, seducendo la fidanzata di un suo caro amico, passando come un’ombra, o uno Zelig, nell’ambiente artistico del Greenwich Village…
Schrader – cresciuto lontano dalla controcultura, in una famiglia calvinista strettamente osservante – fa sua la riflessione critica implicita che Banks (un noto attivista di sinistra) fa alla santificazione dei Sixties e la malinconia del suo sguardo sugli sbagli e la bellezza della gioventù. La redenzione, la sua (im)possibilità è l’eterno ritorno del suo cinema.