La guerra è un eterno presente. In particolare, quella che si combatte in territorio ucraino per volere di Putin: una guerra che in due anni è diventata sempre più una battaglia di posizione, fatta di trincee e di un fronte che rimane praticamente immobile e “silenzioso” – non fosse per i decessi quotidiani, ormai nell’ordine delle decine di migliaia totali per lato.

Soprattutto, dopo due anni di combattimenti su larga scala, di questa guerra non si vede la fine, né il fine (almeno da parte russa): Putin si appresta il prossimo marzo a vincere le ennesime elezioni senza sfidanti, grazie anche all’estromissione del rivale Boris Nadezhdin che si era proclamato contrario alla prosecuzione del conflitto; d’altra parte, chi prova a opporsi al potere del presidente russo finisce spesso in carcere – sia che si tratti di figure della sinistra marxista (Boris Kagarlitsky, da poco condannato a 5 anni in appello), del centro liberale e riformista (Vladimir Kara-Murza, imprigionato pochi mesi dopo l’inizio dell’invasione) o addirittura della destra ultranazionalista (il militare Igor Girkin, che ha avuto un ruolo di primo piano nell’invasione del 2014 in Donbass).

C’è chi in carcere trova la propria morte, com’è accaduto la scorsa settimana a Alexei Navalny. Solo due giorni fa la madre ha potuto vedere il corpo, e ieri le è stato posto un ultimatum: o accetta il funerale del figlio in forma segreta, senza addio pubblico, oppure la sepoltura avverrà nella colonia penale in cui era detenuto.

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Non stupisce dunque che le élite del Cremlino, fra un’intervista concessa a Tucker Carlson e una chiacchierata con gli studenti dell’università di Mosca, ostentino sicurezza, dichiarino invariati gli obiettivi dell’invasione e rispondano colpo su colpo alle accuse dell’Occidente.

Finché la guerra è presente, Putin non deve rendere conto di ciò che accadrà in futuro. Al di là dei proclami, è forse questo il vero collante fra il leader ex-Kgb e una popolazione che sembra smarrita e disorientata, piuttosto che compatta e agguerrita.

Il malcontento a volte emerge, e si dirige contro gli effetti della guerra più che contro la guerra in sé: da settembre scorso, decine di migliaia di madri e mogli si stanno coordinando per protestare e chiedere il ritorno dei propri cari dal fronte; a gennaio, in Baskhiria, si sono visti scontri fra polizia e locali che esprimevano indignazione per l’arresto di un attivista e più in generale per la corruzione dell’amministrazione della zona; infine, la morte di Navalny ha riportato le persone a rimettere fuori la testa in tutto il paese: oltre 350 fermi nei confronti di chi semplicemente depositava fiori in commemorazione del dissidente.

Tuttavia, i sondaggi del Levada Center mostrano il consenso per Putin sempre attorno all’80%, con uno sbalzo di crescita proprio in seguito all’inizio dell’invasione e, per quanto possano essere problematiche in tempo di guerra queste rilevazioni statistiche, la tenuta del regime sembra sotto molti aspetti solida (anche lo strano ammutinamento di Evghenij Prigozhin, abbattuto in volo giusto sei mesi fa, ha prodotto poco più che una crepa simbolica nella verticale del potere).

D’altronde una buona fetta di scontenti è fuggita all’estero: dal 24 febbraio 2022, si calcolano quasi un milione di espatriati e, soprattutto in questi giorni, la diaspora ha provato a mostrare la propria determinazione politica con presidi e mobilitazioni in tutto il mondo (diffuse e organizzate, ma comunque limitate in termini di partecipazione).

Non basta. Ieri Biden ha annunciato un pacchetto di oltre 500 nuove sanzioni come risposta all’“assassinio” di Navalny, mirate a colpire soprattutto il complesso militare-industriale russo.

Intanto, però, gli analisti del think-tank britannico Rusi hanno predetto che la capacità di produzione di Mosca dovrebbe iniziare a deteriorarsi inesorabilmente solo a partire dall’anno prossimo mentre il Fondo Monetario Internazionale ha stimato un rialzo del 2,6% per il Pil della Federazione.

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Finché c’è guerra c’è speranza, sia per il potere che per l’economia: se l’aumento delle spese militari (arrivate al 6% del Pil, pari a 109 miliardi di euro nel 2024) spinge la crescita generale del paese (comunque sorprendente, per quanto “drogata”), Putin ha gioco facile a presentare la sua idea di Russia come l’unica possibile.