Internazionale

Otto anni più due, oligarchi contro classe operaia

Otto anni più due, oligarchi contro classe operaiaSlovyansk, una donna davanti a un edificio distrutto durante il conflitto del 2014 – Ap/Vadim Ghirda

Il limite ignoto L’invasione di Putin all’improvviso ha moltiplicato la posta in gioco, con i cadaveri e macerie

Pubblicato 9 mesi faEdizione del 24 febbraio 2024

Ho messo piede per la prima volta nel Donbass il 4 ottobre 2014. La guerra tra separatisti filorussi ed esercito ucraino era iniziata da appena cinque mesi, ma i giornali italiani già iniziavano a disinteressarsene. All’epoca io e il mio collega Lorenzo Giroffi eravamo una coppia di reporter squattrinati e per risparmiare viaggiavamo a bordo delle marshrutke, i taxi collettivi dell’ex Unione sovietica. E fu così, sul sedile di una marshrutka carica di molte galline e di altrettanti cristiani, che percorremmo i trecento e passa chilometri che separano Kharkiv da Lugansk. Naturalmente c’erano da attraversare numerosi posti di blocco, ma gli unici a viverla con trepidazione fummo soltanto noi due. Una volta passato l’ultimo checkpoint ucraino l’autista staccò dal parabrezza la bandierina gialloblu di Kiev, la ripose nel cruscotto e la sostituì con il tricolore filorusso. Dopodiché non ci fu più bisogno di fare altro.

C’era negli occhi di tutti una sorta di stanca rassegnazione: il Donbass cominciava a sgretolarsi sotto il fuoco dei mortai, e quella frenetica sarabanda di simboli e colori aveva più che mai il sapore di una beffa. Nessuno aveva voglia di parlare di politica, tranne un tizio ubriaco che dall’ultimo sedile continuava a gridare «Ya ruskiy! Ya separatist!», mentre tutti gli altri gli davano dello scemo.
Anche i separatisti ci accolsero con indifferenza. Il loro posto di blocco era incorniciato da due bandiere: una rossa, con la falce e martello, l’altra bianca, gialla e nera, con una bella aquila zarista ricamata nel centro. A tal proposito ci sarebbe stato molto da disquisire, ma l’unica preoccupazione dei miliziani fu quella di farsi consegnare dall’autista una vistosa mazzetta di banconote e soppesarla con aria soddisfatta.

Quella notte dormimmo sul nudo cemento di una base separatista nella cittadina di Stakhanov, 50 chilometri a ovest di Lugansk. A differenza dei loro colleghi del posto di blocco, i combattenti di Stakhanov furono ben lieti di parlare con noi. Ci spiegarono che il popolo del Donbass era insorto spontaneamente contro le armate neofasciste, e che tutti i soldati ucraini avevano una copia del Mein Kampf nello zaino. Poi, accompagnandoci verso il nostro giaciglio, ci indicarono la sagoma di un uomo in divisa che giaceva addormentato in un angolo: «Attenti a non svegliarlo – ci sussurrarono -. È un consigliere militare russo, viene da Mosca. Ma questo ovviamente non va mica scritto». Del resto, anche gli ucraini avevano i loro tabù. Nel 2014 ciò che avveniva nelle regioni orientali del Paese doveva essere chiamato “Operazione antiterrorismo”. La parola “guerra” era severamente bandita, esattamente come lo è oggi in Russia.

A Sloviansk, sempre in quelle settimane, io e Lorenzo partecipammo a una sorta di tour propagandistico organizzato da alcuni volontari italiani che procuravano mezzi e indumenti all’esercito di Kiev. Fummo presentati a un ufficiale dell’armata lealista, il quale si affrettò a spiegarci che buona parte degli abitanti del Donbass discendevano in realtà da vecchi deportati dell’epoca di Stalin, sicché l’attitudine al crimine e al terrorismo faceva semplicemente parte del loro corredo genetico. Il ragionamento, lì per lì, ci parve un po’ fumettistico, ma quella era l’aria che tirava. Di lì a poco, riferendosi agli abitanti delle repubbliche separatiste, il presidente ucraino Petro Poroshenko avrebbe dichiarato: «I nostri bambini andranno a scuola e all’asilo, i loro si nasconderanno nelle cantine».

Quella volta restammo in Ucraina per circa due mesi ad imparare un sacco di cose interessanti. Ci rendemmo conto, ad esempio, che i più ferventi cultori della guerra erano sempre coloro che le bombe potevano permettersi di osservarle da lontano.
Le favolette sugli ucraini col Mein Kampf nello zaino e i filo-russi malati di terrorismo andavano bene al limite per noi forestieri, che in fondo provavamo godimento nel tifare per l’uno o per l’altro. La realtà era che da entrambe le parti si stava soffiando sul fuoco dell’ultranazionalismo, con l’unico scopo di generare un conflitto etnico laddove la gente aveva sempre convissuto in pace. Il vero scontro non era tra russofoni e ucrainofoni, ma tra Mosca, Washington e i rispettivi alleati.

Il Donbass, molto banalmente, aveva avuto la sfortuna di trovarsi lì nel mezzo – e le conseguenze, già allora, erano sotto gli occhi di tutti.
Un giorno, grazie all’intercessione di un driver separatista e a qualche bottiglia di vodka, ottenemmo il permesso di visitare una kopankas nei dintorni di Donetsk. Le kopankas erano cave illegali di carbone, e nelle loro viscere erano finiti a lavorare centinaia di minatori rimasti disoccupati dopo lo scoppio della guerra. I cunicoli, scavati a mano, erano alti non più di un metro e venti. Ci si spostava a carponi, immersi nella polvere nera e con nelle orecchie il rombo del martello pneumatico. Laggiù la classe operaia del Donbass faticava giorno e notte, per pochi dollari di paga e con l’unica prospettiva di buscarsi la silicosi. Scoprimmo poi che le kopankas di quella zona erano controllate direttamente dai leader separatisti, i quali prima si arricchivano sfruttando il lavoro dei propri concittadini e poi – in barba ai loro stessi proclami patriottici – rivendevano sottobanco intere derrate di carbone agli odiati nemici di Kiev. Era così che si alimentava quella guerra, in un ipocrita circolo vizioso fatto di bombe, denaro e propaganda. Ma in occidente già parlavamo di «conflitto congelato», e i reportage dal Donbass erano silenziosamente scivolati dalle prime alle ultime pagine dei quotidiani.

Tutto questo è andato avanti per otto anni, durante i quali non si è mai smesso di scavare nuove trincee e di lanciare nuovi anatemi, mentre gli autisti di marshrutka, sempre più rassegnati, continuavano a scambiare ai posti di blocco le rispettive bandierine sui parabrezza dei loro veicoli. Poi il 24 febbraio 2022 la guerra del 2014 si è trasformata in qualcosa di ancora più terribile. L’invasione di Putin ha improvvisamente moltiplicato la posta in gioco, disseminando di cadaveri e macerie l’intera Ucraina.

Anche la propaganda ha fatto grandi passi avanti, e quelle che nel 2014 erano poco più che ingenue favolette per forestieri nel 2024 sono diventate assiomi di Stato: Kiev, secondo la linea ufficiale di Mosca, è praticamente la capitale del Terzo Reich, mentre i telegiornali ucraini per i russi non parlano più né di criminali né di terroristi – li chiamano semplicemente “orchi”.
Sarebbe interessante, oggi come ieri, domandare ai minatori delle kopankas se hanno più paura degli orchi o dei nazisti, e se credono che la vittoria degli uni o degli altri modificherebbe di una virgola la loro condizione di sfruttati. Sarebbe interessante chiederlo ai civili con le case bombardate, agli operai senza più una fabbrica, e persino ai soldati che da dieci anni vivono con i piedi nel fango. Probabilmente – e giustamente – ci manderebbero tutti affanculo.

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