Colpa di Erdogan. Ma colpa anche di Elon Musk. Colpa di quella logica che “antepone il profitto alle persone”. Si usano le virgolette perché la frase è proprio quella che è apparsa, per meno di un’ora, sul profilo Twitter dell’Afad, la protezione civile turca. Account hackerato dal gruppo “Platform Hack”, che voleva così denunciare i ritardi e le discriminazioni delle autorità di Ankara nei soccorsi dopo il terribile terremoto. Account subito ripristinato. In una giornata dove il social dell’uccellino è stato bloccato e poi ha ripreso a funzionare molto lentamente. Per volontà delle autorità turche, che volevano impedire denunce e proteste.

Colpa di Erdogan, dunque. Ma anche il nuovo proprietario di Twitter ha la sua dose di responsabilità. Pure nei ritardi che hanno accompagnato i soccorsi dopo la tragedia.

Un’esagerazione? Di che si tratta? Potrebbe sembrare un argomento difficile ma non lo è: si parla dell’API, l’acronimo di Application Programming Interfaces. Che vuol dire? In pillole, le Api sono il modo, il mezzo col quale i programmi informatici dialogano fra di loro. Nate assai prima dell’informatica, addirittura prima dei computer, ma conta poco adesso.

Le Api oggi sono semplicemente interfacce che consentono alle applicazioni di interagire fra di loro. Senza, diversi linguaggi non potrebbero parlarsi. E poi c’è l’enderpoint. Cosa sia lo spiega abbastanza bene la pagina ufficiale di Twitter: è un indirizzo dove – tramite le Api – “si può accedere a parti del servizio”. Un indirizzo – univoco, come i numeri di telefono per capire – dove gli sviluppatori possono accedere ad alcuni dati per progettare programmi che si integrino con Twitter. Ma dove possono accedere anche studiosi, scienziati, ricercatori che raccolgono dati ed informazioni per le loro indagini.

Per avere una dimensione: Twitter riceve – riceveva, come vedremo – sei miliardi di “chiamate Api” al giorno. Settantamila “Api call” al secondo. Richieste, – va ricordato, è importante – per accedere a dati ed informazioni che gli utenti accettano di rendere pubblici.

Tutto questo, però, fino ad una settimana fa. Quando Elon Musk – dentro la ristrutturazione del suo social network – ha deciso e comunicato che la piattaforma non “permetterà più l’accesso gratuito alle Api di Twitter”. Saranno consentiti accessi contingentati, col contagocce, chi vuole accedere come si faceva prima, dovrà pagare. E tanto. In attesa del nuovo corso, comunque accessi ristretti.

Sembra solo la solita scelta del padrone arruffone, che accumunerebbe il secondo uomo più ricco del mondo alle micro imprese che evadono il fisco. Ma c’è di più, molto di più. Perché appena resa pubblica la decisione di Musk sulle Api, la “Coalition for Independent Technology Research”, un’associazione che raggruppa accademici, giornalisti, esponenti della società civile, ha subito scritto una lettera aperta al proprietario di Twitter.

Occhio alle date: il documento è della prima settimana di febbraio. Poche ore prima dello sconvolgente sisma. In quella lettera, la coalizione scrive che “questa drastica restrizione interromperà i progetti critici di migliaia di giornalisti, accademici e attori della società civile in tutto il mondo”. Di più, di più terribilmente profetico: l’accesso alle Api di Twitter “consentirebbe, come ha sempre consentito, una rete globale di ricerca di interesse pubblico, compresa la risposta alle crisi per incendi e uragani, disastri”. E no, non è un’esagerazione: perché “Api aperte”, Api accessibili a tutti, hanno già consentito di raccogliere informazioni decisive per far fronte alle emergenze.

Per tutti, valga l’esempio del tifone Haiyan nelle Filippine, quasi dieci anni fa, dove grazie all’accesso libero, molte informazioni decisive furono girate alle squadre dei soccorritori.

Stavolta, invece, non è stato possibile. E’ esattamente quel che ha accertato .codastory, un sito di notizie ed inchieste che con molta professionalità si occupa di disuguaglianze digitali. Ellery Roberts Biddle – giornalista ma anche ricercatrice informatica – ha subito contattato la Georgia State University, un ateneo che da sempre segue e fa analisi sociologiche su Twitter. Scoprendo esattamente che il rallentamento imposto dalle scelte di Musk ha provocato danni.

Poi, con tecniche speciali – come ha spiegato alla giornalista l’informatico dell’università, Ugur Kursuncu –, il giorno dopo il terremoto, molto lentamente, una squadra di specialisti è riuscita comunque ad estrarre dalle Api qualcosa come trentamila tweet. Pochi, pochissimi. E di questi, almeno un terzo segnalava situazioni critiche. Informazioni subito girate alle squadre di soccorso. Vale la pena fare un raffronto: in quelle stesse ore, nell’improvvisato sistema di richiesta di aiuto allestito dalla protezione civile turca – sul web – erano arrivate mille e quattrocento segnalazioni.

Ecco perché – e si ritorna alla lettera aperta della Coalition for Independent Technology Research – le scelte di Twitter “minacciano di spegnere le luci su ricerca, innovazione e conoscenza collettiva essenziali”. Anche se, forse, occorrerebbe fare un ulteriore passo in avanti. Perché, per usare ancora le parole di Ellery Roberts Biddle, “questi sistemi sono diventati di fatto un pezzo delle infrastrutture per rispondere alle crisi umanitarie e sono privati”. Rispondono alle loro logiche. Alle logiche del profitto. Che poi inevitabilmente entrano in contrasto coi bisogni delle persone.