La Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha condannato nuovamente l’Italia per la gestione dei suoi hotspot: questa volta la vicenda riguarda tredici minori stranieri non accompagnati trattenuti per quasi due mesi, dal maggio al luglio del 2017, nell’hotspot di Taranto. Cioè tra le tende e i capannoni che si trovano al varco nord del porto, la zona industriale della «città dei due mari» dove i migranti sbarcati vengono ancora oggi alloggiati per l’identificazione, tra le polveri rilasciate dalla vicina fabbrica siderurgica ex Ilva e i miasmi provenienti dalla raffineria Eni.

Qui è accaduto più volte che i minorenni venissero detenuti, anche per diversi giorni, in attesa della sistemazione in comunità dedicate. Questa prassi, però, è stata giudicata lesiva dei diritti fondamentali dalla Cedu, che giovedì scorso ha condannato il governo italiano dell’epoca. Presidente del consiglio era Paolo Gentiloni e ministro dell’interno Marco Minniti. Ma andiamo con ordine.

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Quando nel luglio 2017 gli avvocati Dario Belluccio e Maria Teresa Angiuli dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) entrano nel centro di identificazione, accompagnati da un parlamentare, trovano una situazione preoccupante. «Sono diverse centinaia le persone trattenute all’interno dell’hotspot, non solo minori, ma anche e soprattutto persone adulte, provenienti sia da sbarchi e salvataggi, sia da rintracci della polizia italiana a Ventimiglia. Così si mescolano sia persone precedentemente identificate, sia in attesa di identificazione», si legge nel ricorso presentato alla Cedu.

«Nonostante i ricorrenti e gli altri minori chiedessero in continuazione di essere trasferiti o di poter uscire dal centro di trattenimento – scrivono i legali – era sempre loro riferito che non vi erano altri posti dove poter andare e che non avrebbero dovuto lamentarsi, a pena di essere rinviati nel proprio paese di origine». E ancora: «i ricorrenti dormono insieme a centinaia di adulti in letti fittamente affiancati; nella struttura sono presenti soltanto i letti, mentre mancano degli spazi comuni o personali dove riporre i propri effetti, nessun armadietto, nessuna sedia, nessun tavolo, né mensole».

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L’hotspot di Taranto è stato istituito nel febbraio del 2016. Oggi sono quattro le strutture di questo tipo attive sul territorio nazionale. Le altre tre si trovano in Sicilia: a Lampedusa, Pozzallo e Messina. Nati come centri per la sola identificazione, nella realtà gli hostpot funzionano anche come strutture per il trattenimento. Sono inaccessibili a giornalisti, avvocati ed enti di tutela. Forse perché ai governi di ogni colore fa comodo che vengano nascoste le prove di diritti violati, come quelle messe nero su bianco dai legali di Asgi: «non vi sono lenzuola che coprano i materassi e tutti gli spazi sono di fatto comuni. I bagni non sono forniti di acqua calda e per fare la doccia si deve fare la fila all’aperto per molto tempo. E la scarsezza di cibo distribuito costituisce motivo di sofferenza».

Questi e altri motivi hanno convinto la Corte, presieduta da Stéphanie Mourou-Vikström, che i diritti fondamentali dei tredici minori sono stati violati. In particolare il loro trattenimento è andato contro tre articoli della Convenzione europea per i diritti dell’uomo: il terzo, che punisce i trattamenti inumani e degradanti; il quinto, sul diritto alla libertà e alla sicurezza; il tredicesimo, sul diritto al ricorso effettivo.

In sostanza, la Corte ha riconosciuto che le condizioni dell’hotspot non erano in grado di garantire la dignità dei presenti, rilevando peraltro che erano peggiori persino di quanto argomentato nel ricorso e da un report redatto nel 2017 dalla commissione straordinaria per i Diritti umani del Senato, e che i minori stranieri sono stati trattenuti senza alcun provvedimento formale. Tutto questo quando al governo c’erano le forze politiche di centrosinistra.