La Corte europea dei diritti umani (Cedu) ha condannato l’Italia per il trattenimento e le condizioni di vita nell’hotspot di Lampedusa affrontate da tre cittadini tunisini finiti nella struttura tra il 2017 e il 2019. Le sentenze sono arrivate ieri, proprio mentre il presidente della Repubblica Sergio Mattarella riceveva al Quirinale la presidente della Cedu Síofra O’Leary, e riguardano tre procedimenti distinti firmati dalle avvocate Lucia Gennari, Loredana Leo e Anna Maria Brambilla. Le legali fanno parte dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi).

I giudici di Strasburgo hanno ritenuto che le persone sono state sottoposte a «trattamenti inumani e degradanti» e sono state «private della libertà personale in modo arbitrario», in violazione degli articoli 3 e 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. A ognuno l’Italia dovrà versare 5mila euro per danni non pecuniari e 4mila per le spese legali.

Le decisioni seguono l’analoga sentenza di marzo scorso in cui la Corte, facendo lo stesso ragionamento giuridico, si era espressa a favore di altri quattro cittadini tunisini trattenuti nell’hotspot dell’isola tra il 15 e il 26 ottobre 2017. Il governo aveva tre mesi per presentare appello, ma ha rinunciato: il 30 giugno il pronunciamento è dunque diventato definitivo.

Nei casi trattati più recentemente il trattenimento era durato molto di più: da 17 giorni a quattro mesi. Un ragazzo, infatti, è stato rinchiuso nel centro tra il 15 gennaio e il 20 marzo 2018 (anche se dodici giorni prima un incendio avesse danneggiato la struttura). Trasferito a Torino è stato addirittura riportato «nell’hotspot di Lampedusa e ci è rimasto per più di due mesi».

«La decisione di presentare una serie di ricorsi, in totale una decina, veniva dal fatto che il trattenimento prolungato nella struttura di Lampedusa continuava a ripetersi uguale nonostante si trattasse di una forma di detenzione informale e le condizioni all’interno del centro, spesso sovraffollato, fossero pessime», spiega l’avvocata Gennari. «Ad alcuni gruppi nazionali, come i tunisini, non venivano poi fornite informazioni adeguate, né l’effettiva possibilità di accedere alla procedura d’asilo. A meno che non intervenissero dei legali. Verso Tunisi abbiamo documentato negli anni molti rimpatri in violazione delle garanzie dei richiedenti. Non si trattava di eventi occasionali, ma di una gestione strutturale del fenomeno che non rispettava i diritti fondamentali».

Rispetto al periodo 2017-2019 nell’hotspot di Contrada Imbriacola ci sono stati dei cambiamenti. Quest’anno la gestione è passata alla Croce rossa italiana e la capienza è stata portata da 400 a 640 posti. L’aumento degli sbarchi, che hanno toccato quota 140mila, e l’assenza di un dispositivo istituzionale di ricerca e soccorso, oltre ai tanti ostacoli burocratici alle attività delle Ong, hanno moltiplicato gli arrivi sulla piccola isola. Solo «dal primo giugno al 30 settembre abbiamo trasferito 64.051 persone», ha detto martedì in un’informativa alla Camera il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi.

Dopo l’indizione dello stato emergenza il 24 aprile scorso e la prima sentenza Cedu del 30 marzo il governo ha messo a punto un «dispositivo ibrido» per accelerare lo svuotamento della struttura di Contrada Imbriacola. Ne fanno parte navi militari, traghetti civili e voli dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim).

Questo non ha impedito il tilt in cui è finita l’intera isola con gli oltre 11mila sbarchi in circa una settimana che si sono avuti a metà settembre. A ottobre, invece, il numero degli arrivi via mare si è fortemente ridotto. Ieri, dopo tanto tempo, l’hotspot era quasi vuoto: al suo interno soltanto sei persone.