Le Forze armate del Sudan e le Forze di supporto rapido (Rsf) che si combattono dal 15 aprile, hanno concordato, con la mediazione americana, un cessate il fuoco di 72 ore a livello nazionale a partire dalla mezzanotte di ieri. Lo ha annunciato il segretario di Stato Usa, Antony Blinken. Il capo della diplomazia statunitense ha inoltre esortato le parti coinvolte a rispettare l’accordo, aggiungendo che gli Usa lavoreranno con i partner internazionali e la società civile sudanese «per creare un comitato che coordini il raggiungimento e la corretta attuazione di un accordo che porti alla cessazione delle ostilità in maniera permanente». Questo è il terzo cessate il fuoco proclamato in 10 giorni e come i due precedenti, difficilmente sarà rispettato. E così dal Sudan si continua a fuggire.

Khartoum, Sudan – foto Ap

Almeno 10.000 civili in fuga dai combattimenti, dal Sudan sono entrati nel Sud Sudan negli ultimi giorni. Fonti citate dall’agenzia Reuters riferiscono che circa 6.500 hanno attraversato il confine sabato e 3.000 domenica, altri lo hanno fatto ieri.

Parecchi sono sud sudanesi scappati negli anni passati dagli scontri armati nel loro paese – il Sudan ospita 800.000 profughi sud sudanesi – e che ora tornano indietro. Altri sono eritrei, kenioti, ugandesi e somali. Inoltre, migliaia di persone, famiglie intere, starebbero cercando di passare il confine dalla regione del Darfur verso il Ciad, l’Egitto, l’Etiopia, la Repubblica Centrafricana e la Libia, paesi che già risentono delle conseguenze causate dai loro sconvolgimenti politici ed economici interni.

«Ci sono organizzazioni umanitarie che stanno aiutando i nuovi arrivati e, al momento, il bisogno maggiore riguarda i servizi sanitari, l’acqua, i servizi igienico-sanitari e la protezione, in particolare per le donne e le ragazze», riferiva ieri l’International Rescue Committee.  Un’altra ong internazionale, ActionAid, avverte che la guerra in Sudan rischia di destabilizzare l’intera regione che «sta già affrontando non solo una delle peggiori crisi alimentari mai registrate».

Quello di sudanesi e di africani è l’esodo di cui i media occidentali si occupano decisamente meno rispetto a quello delle migliaia di stranieri, in maggioranza diplomatici ed operatori umanitari dell’Onu e delle Ong che stanno lasciando il Sudan grazie all’intervento dei loro governi e di reparti speciali delle loro forze armate.

L’hanno già fatto gli statunitensi, i britannici, i francesi e altri ancora, spesso con difficoltà. Sono andati via 1200 europei, tra cui 150 italiani, portati a Gibuti con due aerei da trasporto nella notte tra domenica e lunedì. Resta in Sudan gran parte del personale di Emergency che gestisce tre ospedali destinati a diventare fondamentali se si tiene conto che almeno i due terzi delle strutture sanitarie sudanesi non sono più operative a causa di bombardamenti e scontri a fuoco.

La precarietà dei profughi è la stessa in cui vivono coloro che hanno scelto di rimanere a Khartoum. Nella capitale i combattimenti peggiorano con il passare delle ore ma gli scontri tra i paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf) e l’esercito si sono propagati a nord fino a Merowe e a Port Sudan facendo in totale dal 15 aprile, secondo dati dell’Onu, almeno 427 morti e 3700 feriti.

«I civili a Khartoum sono a corto di cibo, acqua ed elettricità mentre il conflitto infuria. Temiamo che i combattimenti spingano masse di persone ad abbandonare le loro case», ammonisce Michael Selby-Green di Islamic Relief. Ad aggravare il quadro c’è l’aumento dei prezzi con alcuni generi di prima necessità reperibili ormai solo al mercato nero, peraltro sfidando la morte perché i colpi di artiglieria e i raid aerei non risparmiano nessuno. Le Rsf di Mohammed Hamdan Dagalo (conosciuto anche come Hemeti) continuano ad occupare edifici a Khartoum trasformandoli in fortini che l’esercito agli ordini di Abdel Fattah El Burhan espugna dopo combattimenti feroci e con l’aiuto di aerei ed elicotteri. Scontri a fuoco tra l’esercito e le Rsf sono avvenuti anche nella città di Al Fasher – capitale del Darfur settentrionale – e nello stato di Jazirah, ad Albagir, Benuie, Al Mahali e En Nuba, Geisan. L’agenzia dell’Onu per l’uguaglianza di genere (UN Women) lancia l’allarme su casi di violenza sessuale. Intanto l’ex dittatore sudanese Omar al Bashir e alcuni membri del suo regime sono stati trasferiti in un luogo sicuro dalla prigione di Kober dopo che uomini armati, pare delle Rsf, avevano attaccato le guardie carcerarie per liberare migliaia di detenuti.

Dagalo continua l’operazione di pubbliche relazioni presso i governi occidentali, grazie anche all’uso dei social. Su Twitter ha riferito dei contatti avuti anche con il ministro degli esteri italiano Tajani e il Segretario di stato Blinken. Cercando di far colpo sugli occidentali, descrive il suo avversario El Burhan come un «islamista radicale» e le Rsf impegnate a combattere i fondamentalisti che intendono mantenere il Sudan isolato e lontano dalla democrazia. Argomenti sui quali in passato ha insistito anche con i leader arabi.

Non sorprende che abbia l’appoggio del sovrano degli Emirati, Mohammed bin Zayed, che ha un’ossessione di lunga data per i movimenti islamisti. E che abbia trovato un alleato nel generale libico Khalifa Haftar, un altro presunto nemico degli islamisti. Malgrado ciò, non ha ottenuto l’appoggio del presidente egiziano Abdel Fattah El Sisi che pur essendo un nemico giurato dei Fratelli musulmani sostiene El Burhan ritenuto vicino a movimenti islamici sudanesi.