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The Fight: Ali vs Foreman a Kinshasa

The Fight: Ali vs Foreman a KinshasaFoto Ap

Sport 30 ottobre 1974, nella capitale del Congo si tiene l'incontro di pugilato più famoso di sempre

Pubblicato 2 giorni faEdizione del 26 ottobre 2024

Il match che per taluni è il culmine della storia secolare della boxe, per altri il principio di una trasformazione irreversibile, per altri ancora l’inizio della sua fine, fu esattamente cinquant’anni fa, il 30 ottobre del 1974, e si tenne a Kinshasa capitale del neonato Zaire, il Congo appena trapassato dal regime coloniale e schiavista già proprietà di Leopoldo II del Belgio, il genocida, al regime di Mobutu, l’ex adepto del rivoluzionario Patrice Lumumba presto però divenuto l’autocrate di una autentica cleptocrazia.

Grazie alla intraprendenza di un faccendiere quale Don King e all’intuito di alcune corporation televisive, il match venne presentato e anzi offerto a Mobutu come The rumble in the jungle, nientemeno, e nei termini di un ritorno simbolico alle origini e al mito stesso della négritude. Pure se antipodi per indole, cultura e caratura tecnica, neri afroamericani erano sia il campione in carica sia lo sfidante, i cui ritratti aprono un libro degno della ricorrenza per ricchezza di informazioni, qualità narrativa e nitore tipografico, Giù la testa. Kinshasa, 30 ottobre 1974 – Ali contro Foreman l’alba di una rivoluzione (Hoepli, «Storie di sport», pp. 238, euro 24.90): lo firma un maestro della critica pugilistica, Claudio Colombo, una vita fra Gazzetta dello Sport e Corriere della Sera, firmatario da ultimo di due belle raccolte di ritratti, Cronache da bordo ring (2021) e Giganti del ring (’22) entrambe uscite nelle Edizioni InContropiede. Con un grande seguito di tecnici, di parenti e parassiti nonché diverse centinaia di giornalisti, i due pugili che arrivano a Kinshasa, per combattere prima che si apra la stagione delle piogge, non potrebbero essere più opposti.

Il campione in carica è il texano George Foreman, 25 anni e 100 kg. di peso, un’infanzia difficile e piccoli trascorsi di borseggiatore redento dalla boxe che in lui è un prodigio elementare di forza e di continuità nel colpire alla maniera un rullo compressore: non ha doti di scherma né una spiccata mobilità ma il suo tabellino è eloquente, con 40 incontri vinti di cui 37 per KO e di rado ha superato l’ottavo fra i quindici round di prammatica.

Ma agli occhi degli zairesi Foreman, un uomo laconico e introverso, ha il grave difetto di presentarsi come il classico «negro bianco» (lo zio Tom che accetta la società dei bianchi e brandisce volentieri la bandiera a stelle e strisce).

C’è di più perché, ignaro di storia coloniale, egli si presenta all’aeroporto con un cane pastore, lo stesso che veniva lanciato contro i fuggitivi dalle piantagioni, insomma un truce sinonimo della dominazione belga. Gli zairesi lo ripagheranno urlando scalmanati dagli spalti «Ali boma yè, boma yè», Ali uccidilo, uccidilo.
Perché lo sfidante è per l’appunto Muhammad Ali, al secolo Cassius Clay, che ha ormai 32 anni, denuncia il peso per lui preoccupante di oltre 98 kg. ma resta il mito della gioventù ribelle in Africa come nell’Intero Occidente. Figlio kentuckiano della media borghesia nera, campione olimpico a Roma nel 1960 da medio-massimo, dieci anni prima a Miami ha strappato la corona dei massimi a Sonny Liston (un atleta in tutto straordinario e tuttavia già minato da una condotta autodistruttiva) mantenendola fino al ’67, quando Clay si rifiuta di andare a combattere in Vietnam, viene processato, gli viene tolto il titolo ed è sospeso per oltre tre anni. Ma è in quel momento che, insieme con il nome di Muhammad, Ali nasce il suo mito, l’immagine della boxe danzata da parte di colui che, alla lettera, vola come una farfalla e punge come un’ape. Da che è ritornato, Ali ha perso due incontri (con Joe Frazer, suo acerrimo nemico a vita, e Ken Norton), nessuno sa quale sia il suo limite di resistenza al cospetto dello strapotere fisico di Foreman ma gli zairesi lo adorano e, osannandolo, accettano anche le intemperanze e gli insulti in cui ama affogare l’avversario (nel qual caso un suo ex tifoso) persino nella preliminare cerimonia del peso. Quel 30 ottobre il match si svolge davanti a 60.000 persone, nello stadio della capitale, e 800 milioni sono i telespettatori: la Rai snobba la telecronaca diretta, pure se c’è la troupe di un giovanissimo Gianni Minà, e alle quattro del mattino solo chi abita sull’Adriatico (chi scrive ne è testimone) ha il privilegio di vedere la diretta grazie alla slovena TeleCapodistria con il commento di Sandro Damiani.

Per parte sua, Colombo organizza il racconto alternando il tondo al corsivo, cioè il minuto referto round per round ai trascorsi storici e sociopolitici che lo hanno reso possibile. Il match, il sé, ha un decorso paradossale perché se Foreman combatte secondo le aspettative, avanzando da rullo compressore e aspettando un’ultima demolizione dell’avversario, Alì invece si rifiuta di danzare come vorrebbero i suoi sostenitori e il suo allenatore medesimo, l’ineffabile Angelo Dundee: Ali al contrario si accorpa all’avversario, accorciandone la traiettoria dei colpi e perciò la potenza, ovvero fa un uso addirittura creativo delle corde del ring perché costringe Foreman a seguire il suo moto inerziale all’indietro e a sfiancarsi in inutili e frustranti clinch. Tant’è che quando l’altro è indotto a una pausa prima di riavviare il suo prevedibile moto perpetuo, Ali gli entra nella guardia e lo colpisce con il più classico degli uno-due, jab e diretti che scuotono Foreman e lo colmano di imprevisto stupore.

Alla settima ripresa, quando il texano comincia a sentire la stanchezza e prima ancora la disabitudine a match prolungati, Ali ha la netta sensazione di essere in vantaggio di punti (e infatti, seduto a bordoring, l’indimenticabile Rino Tommasi gli dà tutte vinte le riprese, meno la quarta e la quinta alla pari). La vera e propria apoteosi cade all’ottava e così Claudio Colombo ne descrive il frangente capitale, quando Foreman patisce tutta la violenza esplosa dai colpi di Ali: «Il diretto destro che si stampa in mezzo alla sua faccia ha uno schiocco percepibile fino alle tribune Si piega in avanti, quasi incespica nel tappeto – le gambe, ormai, non lo sostengono più – ruota su se stesso e crolla a terra sulla schiena proprio al centro del ring, la gamba sinistra stesa, la destra appena incurvata, la testa sollevata sul collo rigido, l’ultima parte del corpo a ribellarsi al martirio».

È questo l’incipit di una apoteosi che darà luogo ad una ingente letteratura, fin dall’instant book di un vecchio amico di Ali, il romanziere americano Norman Mailer, autore di The Fight (di cui esistono da noi due diverse edizioni: Il match, Mondadori 1976 e La sfida, Einaudi 2012). In tribuna stampa, Mailer fa le veci di Nat Fleischer, piccolo ebreo di Brooklyn e massimo interprete della boxe, mancato purtroppo con due anni di anticipo sull’incontro del secolo. Lì presente fra i giornalisti italiani è invece un outsider d’eccezione, Giovanni Arpino, inviato della Stampa (e sorprende non venga affatto menzionato da Colombo). Arpino detta al telefono il suo articolo («Ali ora è ritornato invincibile», La Stampa, 1 novembre) mentre si scatena sullo stadio l’uragano che inaugura la stagione delle piogge e sigilla l’incontro in un’epigrafe indelebile: «Ha vinto la negritudine, ha vinto il criterio dello spettacolo, ha vinto Ali. E la Gran Madre Africa ha divorato Foreman facendogli interpretare il ruolo dell’agnello sacrificale».

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