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Dal Sudan a Gaza. «Il momento della pace è ora»

Dal Sudan a Gaza. «Il momento della pace è ora»La presidente di Emegency Rossella Miccio – Ansa

Intervista a Rossella Miccio, presidente di Emergency Urgente ragionare di pace. «O capiamo che stiamo andando verso l’autodistruzione, oppure temo che sarà davvero difficile pensare a un futuro per l’umanità»

Pubblicato 2 giorni faEdizione del 25 ottobre 2024

Intervista a Rossella Miccio, presidente di Emergency, appena rientrata in Italia dopo due settimane in Sudan, il paese spezzato da un anno e mezzo di guerra e con la più grande crisi di sfollamento mondiale. 

 

Ci sono conflitti che assorbono l’attenzione occidentale, quello a Gaza, che si allarga fino al Libano, quello in Ucraina e ci sono guerre dimenticate. Lei è appena tornata dal Sudan, dove è in corso il più feroce tra i conflitti africani e dimenticati. Perché si racconta così poco di Africa, se non a proposito delle migrazioni? 

Tendiamo troppo spesso a classificare i cittadini come persone di serie a, b, c e ci occupiamo di quelli che riteniamo più “vicini” a noi. Purtroppo i cittadini sudanesi, così come quelli del Tigrai quando c’è stata la ferocissima guerra in quell’area o nelle altre zone d’Etiopia, vengono considerati con meno diritti di noi, quindi anche la loro vita vale meno della nostra. Questo è un problema enorme: in un mondo globalizzato come il nostro credo che la disuguaglianza sia il problema vero che non permette di affrontare le crisi con strumenti diversi dalla guerra.

 

Qual è la situazione in Sudan in questo momento?

Parliamo di quasi 11 milioni di persone che sono state costrette a lasciare le proprie case, alcune anche più volte, perché il fronte della guerra si è spostato oppure per questioni legate alle inondazioni, a un clima impazzito. Quest’anno, in Sudan, si registra il più alto tasso di inondazioni degli ultimi 30 anni. Il 70-80 percento degli ospedali non è più funzionante e a questo si aggiunge la difficoltà di accedere all’acqua pulita, all’elettricità. Non si trova cibo, soprattutto fresco, né farmaci. Questo sta creando non solo le condizioni ideali per tante epidemie, come quelle già in corso di colera e di dengue, ma anche per una grave carestia. Una situazione umanitaria disastrosa, in cui sono pochissimi gli operatori umanitari che riescono a lavorare. 

 

L’Oms rileva che in Africa le cardiopatie sono tra le patologie più diffuse. A Khartoum Emergency ha aperto il centro Salam, un ospedale di cardiochirurgia che ospita anche un ambulatorio pediatrico. Chi sono i pazienti che avete incontrato? 

I pazienti sono persone che stanno subendo le conseguenze indirette di questa guerra. Qualche settimana fa è arrivato un ragazzino di 12 anni dal Nord Darfur, ha viaggiato col papà per oltre tre settimane. Cardiopatico, ha un problema legato a una malattia reumatica. Una malattia che è endemica in Africa e legata alle condizioni di povertà di vita. In Europa è stata debellata grazie alla penicillina, alla prevenzione, alla medicina di base. In Africa è ben lontana dall’essere debellata e attacca soprattutto i bambini. Di solito, quindi, incontriamo ragazzi di 10, 12, 15 anni che hanno una, due, tre valvole del cuore già danneggiate e la cui unica possibilità di vita è l’intervento chirurgico, molto costoso e complesso e che richiede delle cure continuative per il resto della vita. Quel bambino ha rischiato la vita per arrivare al centro Salam, perché sapeva che era la sua unica possibilità. Per ora il centro è ancora aperto, non ha mai chiuso i battenti grazie allo “status” di Emergency nel paese. Dopo 17 anni la nostra ong è ormai riconosciuta come una realtà credibile, neutrale, indipendente e quindi rispettata da tutte le parti in conflitto, per la qualità del lavoro che porta avanti. Per questo, ci siamo sentiti ulteriormente responsabili di dover tenere aperta la struttura, aggiungendo anche un ambulatorio pediatrico dove arrivano ogni giorno almeno 100 bambini. Le loro condizioni peggiorano di mese in mese. Quando abbiamo aperto, a marzo, avevamo il 10 percento di bambini malnutriti, a settembre erano già il 60 percento. Questo dice tutto di quanto stia peggiorando la situazione di chi non è riuscito a scappare da Khartoum.

 

Il centro Salam fa anche attività di formazione per i medici sudanesi. Come si fa a mantenere una postura decoloniale nella trasmissione della conoscenza in un altro paese? 

La scienza medica ha le sue regole e ci facilita un po’ il lavoro in questo senso. Abbiamo poi creato un dialogo con le istituzioni locali sudanesi per fare in modo che il programma di formazione fosse costruito sulle esigenze della popolazione. Noi in Europa non vediamo più pazienti reumatici, ma in Africa sì e ci sono anche esigenze legate alla cultura del posto. Per esempio, alle donne che vengono operate di patologia reumatica, a cui si applica una sostituzione valvolare con una protesi meccanica è sconsigliato avere figli. Questo è un tema molto grosso in un paese in cui per le donne è fondamentale poter diventare madri. Noi affrontiamo questo tema coinvolgendo tutta la famiglia e i medici locali. È un programma che abbiamo costruito insieme ai colleghi e alle colleghe sudanesi, per capire come meglio rispondere a queste esigenze. Prima della guerra il progetto era aperto anche ad altri paesi. Abbiamo avuto cardiochirurghi, anestesisti, infermieri ugandesi, per esempio, e che ora a causa della guerra non possono raggiungerci. Speriamo di poter riprendere ad avere non solo pazienti di altri paesi ma anche medici che vengono a formarsi in Africa sulle patologie africane. 

 

A proposito di pratica medica, il personale sanitario è tutelato dal diritto internazionale umanitario e ogni attacco deliberato contro civili e infrastrutture civili, tra cui gli ospedali, è chiaramente vietato e considerato una grave violazione. L’attacco indiscriminato agli ospedali di Gaza, che ha costretto alcune ong a ritirare il personale medico dal campo, è da considerarsi un cambiamento nelle “regole della guerra”? Sposta in avanti il limite di ciò che è consentito?

Nel 1932 Albert Einstein, a margine di una conferenza in cui si discuteva del diritto internazionale umanitario, ha detto che «la guerra non si può umanizzare, si può solo abolire». Pensavamo tutti che bastasse mettere dei paletti, scriverlo (ndr il diritto internazionale) e invece aveva ragione Einstein. Gaza è l’apoteosi della negazione di qualsiasi riconoscimento del diritto umanitario, in maniera ormai spudorata. Non ci pone neanche più lo scrupolo di giustificarsi per questo. Il venire meno del diritto umanitario lo abbiamo visto da tanti anni, in tanti posti, a partire dall’Afghanistan. La cosa che dovrebbe farci riflettere è che sempre più gli operatori umanitari e le strutture sanitarie vengono attaccati da eserciti di governo, non da gruppi armati, ribelli o milizie spars. Questo mette in crisi tutto il sistema che pensavamo di aver costruito su solide basi dopo la Seconda guerra mondiale. Il dramma di Gaza va ben oltre Gaza, sta minando la società che abbiamo costruito dopo il disastro delle due guerre. 

Da nord a sud, sabato si riempiranno le piazze di Torino, Milano, Firenze, Roma, Bari, Palermo e Cagliari. «Il tempo della pace è ora» prima che ci siano ulteriori escalation? Siamo a un punto di non ritorno? 

Stiamo precipitando verso la rottura. Trovo irrispettoso che il tema della guerra si affronti con la leggerezza con cui viene affrontato, dandola per scontata, come se si stesse parlando del tramonto e dell’alba. La guerra non è scontata, la guerra è sempre una scelta e come tale può essere evitata. È responsabilità della politica fare scelte diverse. La situazione mondiale sta implodendo: abbiamo un rischio nucleare altissimo, non solo in Russia e Ucraina ma anche in Medio Oriente. O mettiamo il freno a mano e capiamo che stiamo andando verso l’autodistruzione, oppure temo che sarà davvero difficile pensare a un futuro per l’umanità. È urgentissimo ragionare seriamente di pace, come chiedono, tra l’altro, i cittadini del mondo. 

 

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