Per fortuna è una bella giornata dice una donna all’altra scrutando il cielo azzurro terso, una frase «ordinaria» che all’improvviso suona strana tra quelle strade deserte piene di macerie, devastazione, dove le porte delle case si aprono lasciando cadere fuori i corpi senza vita dei loro abitanti mentre un cane che cammina insieme al padrone è come un’apparizione inattesa. È questo sentimento di spaesamento in cui i confini della vita quotidiana sono stati all’improvviso risucchiati dentro qualcos’altro – sostanzialmente tentare di sopravvivere – che permea le immagini di Mariupolis 2, il film purtroppo postumo di Mantas Kvedaravicius, il regista lituano che la città divenuta il simbolo della guerra in Ucraina aveva già raccontato in un altro film, Mariupolis (2015).

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ANCHE LÌ c’era un conflitto, quello nel Donbass, ma rimaneva distante o forse messo da parte, il ritmo della città ne assorbiva le tensioni stemperandolo in gesti di normalità, tra una famiglia in gita sul Mar Nero e un gruppo di danzatori che provava il nuovo spettacolo. Quando la Russia ha attaccato l’Ucraina lui è voluto tornarci, insieme alla compagna Hanna Bilobrova provavano a documentare quella realtà sotto attacco: cosa era accaduto all’improvviso nelle vite delle persone? Che erano diventati i giorni per donne, uomini, bambini in quella cesura profonda tracciata dalle armi – morte, violenza, perdita di affetti, di luoghi, di quell’ordinarietà appunto? I russi lo hanno ucciso fuori dalla città dove stava facendo delle riprese all’inizio di aprile, è stata Bilobrova, che è riuscita a riportare il corpo del regista in Lituania, a mettere insieme con la montatrice abituale di Kvedaravicius, Dounia Sichov, i materiali da cui ha preso forma il film, inserito all’ultimo momento nella programmazione e presentato ieri in Seance Speciale.

 

Sul palco c’erano lei, Sichov, e il gruppo di lavoro: lacrime, voci rotte e una lunghissima standing ovation. Ma che film è questo Mariupolis 2? Una testimonianza, un film documentale nella sua forma di urgenza – non sapremo mai come sarebbe stato in circostanze diverse – che non si lascia però sopraffare dalle emozioni. Sono appunti, quasi una ricerca che prova a rispondere a quell’interrogativo impossibile su come filmare la guerra, la sofferenza, qualcosa che accade sotto agli occhi del mondo, mediatizzato eppure – o forse proprio per le tante immagini – sempre distante. Le abbiamo viste in questi mesi nei video e nelle foto quelle scene di distruzione, i cadaveri disseminati per le strade, i morti nel teatro di Mariupol, nell’acciaieria dove ieri si sono arresi gli ultimi soldati ucraini.

LA PROSPETTIVA da cui osserva quanto succede Kvedaravicius è diversa: uno spazio ridotto ai margini della città, nel sotterraneo di una chiesa dove si sono rifugiate molte persone di ogni età, adulti e bambini. Pregano, condividono il cibo, escono per andare al bagno, qualcuno per cucinare sul fuoco. Due uomini girano per raccogliere oggetti che possano aiutare, un generatore nella casa di qualcuno che non c’è più permette di preparare da mangiare. Il tempo è sospeso in questa sopravvivenza: cercare la benzina, il cibo, non saltare sulle mine. Non c’è più scuola per i bambini, non c’è lavoro, amici, una passeggiata in quello che sembra essere un inverno più dolce. È questa la guerra, il suo trauma? Una separazione, la perdita di affetti, di riferimenti – sono solo e disabile con un bambino piccolo singhiozza nel buio un uomo la cui moglie è morta sotto alle bombe.

SENZA ENFASI le immagini di «osservazione» restituiscono questo vuoto, insieme al bisogno di ancorarsi a quel presente, a quel luogo che è divenuto il mondo: si parla del «fuori», il cratere al posto del teatro di Mariupol, le fosse comuni, chi ha visto morire i vicini. La guerra è l’infinito rumore delle bombe, dei razzi, degli spari che martella giorno e notte e ci porta lì mentre guardiamo, insieme a quelle persone, tra i loro gesti di resilienza. Con uno scarto rispetto a tante immagini viste nei mesi, appare la quotidianità non strumentalizzata, evocativa eppure terribilmente concreta.