Mantas Kvedaravicius non si accontentava di assistere agli eventi. Vedere, osservare, non era sufficiente. Voleva capire. E per capire scavava. Scavava dentro al buio e alla luce, e attraverso l’accumulo di immagini creava significanti, strazianti e crudeli poemi che riferivano dell’assurdità di questo nostro folle mondo in fiamme. In alcune delle situazioni più conflittuali, “calde”, quelle vicine a esplodere, lui era lì, anche a rischio della propria incolumità, danzando con la morte, affamato, alla ricerca – forse – di un senso nelle cose, di un qualche genere di risposta a quesiti troppo grandi. L’atto della visione coincideva per lui con l’esperienza fisica, mai disponibile a una “mediazione”. Forse perché il regista lituano ucciso lo scorso sabato a 45 anni a Mariupol, in questa guerra insensata che si consuma alla porte dell’Europa, era anche un antropologo, in quanto tale interessato a comprendere l’uomo e il suo comportamento. Lo sguardo di Mantas indagava e penetrava sempre oltre la superficie delle persone e delle cose, riuscendo a catturarne il nucleo. L’essenza. Di più. Dal caos del mondo, dai suoi anfratti più oscuri, riusciva a tirare fuori bellezza. Una bellezza violenta, mai pacificata, eppure catartica.

QUANDO un razzo russo è esploso vicino alla sua automobile, stava cercando di allontanarsi dalla città ucraina dove era tornato per documentare la guerra. La stessa città che anni prima era già stata al centro del suo obiettivo, testimone delle vite apparentemente tranquille dei suoi abitanti, mentre le ombre del conflitto tra separatisti filorussi e nazionalisti ucraini si allungavano minacciose. Mariupol è stato presentato alla Berlinale del 2016 nella sezione Panorama. Cinque anni prima, nel 2011, l’occhio del regista si era invece fermato in Cecenia, oggetto di studio sia per la sua tesi di dottorato all’Università di Cambridge – intitolata Knots of absence: death, dreams, and disappearances at the limits of law in the counter-terrorism zone of Chechnya – che per il documentario Barzakh (Limbo), premiato a Berlino. Alla 34.a Settimana Internazionale della Critica di Venezia, nel 2019, ha portato il suo primo film di “finzione”: Partenhon.

UN LAVORO caleidoscopico che metteva in relazione lunghe esperienze di osservazione messe a fuoco in quegli abissi del mondo che tanto lo attiravano: in Sudan, a Odessa, in un bordello di Atene, ai piedi del monumento che attraverso i secoli è stato testimone inerme prima della nascita, poi del declino della civiltà occidentale. Come nel suo lavoro accademico, tornano ancora le stesse ossessioni: morte, sogni, assenze. Temi che evidentemente affioravano spesso a interrogarlo, indipendentemente dal fatto che imbracciasse o meno una macchina da presa. Si dice che Mantas sia morto con una telecamera in mano. Si dice che lo abbiano trasportato in ospedale e non ce l’abbia fatta. Molte cose diverse si dicono in queste ore e forse importa relativamente conoscere i particolari della sua morte. Conta, purtroppo, solo la concretezza di questa tragica scomparsa, che ci priva di uno degli sguardi più inquieti e illuminanti cui potessimo affidarci.