Che quella di Marisa Monte non sia mai musica banale lo certifica subito l’attacco del concerto all’Auditorium di Roma, una canzone uscita nel 1994, inclusa nell’album Verde, anil, amarelo, cor-de-rosa e carvão (Verde, indaco, giallo, rosa e antracite). Si tratta di Maria de verdade, un pezzo che arriva dalla penna dell’amico e collega Carlinhos Brown (suo complice nei Tribalistas) e che parla d’amore in un modo così denso – «Sono vittima del pozzo profondo/Nella pozzanghera del mondo/Dal cielo pioverà amore» – da dissipare subito ogni timore riguardo al tono della serata, alla sua più o meno pericolosa spudoratezza pop. La cantante e compositrice di Rio de Janeiro Marisa de Azevedo Monte, conosciuta ai più come Marisa Monte, ha una carriera alle spalle costellata di meravigliose avventure discografiche e questo tour mette in fila una serie consistente di queste perle.

LA RAFFINATA sensibilità della sua voce, il suo tono versatile e mai mellifluo, fanno sì che questa linea di puro pop brasiliano abbia climi diversi, un aspetto molto importante per l’artista. La sua qualità vocale e l’ampia estensione rendono il concerto una luminosa cavalcata musicale. Un modo di frequentare il pop che non è mai banale, mai omologato. Marisa Monte si concede digressioni improvvise, qualche piccola mossa tellurica, un arrangiamento che sposta il palinsesto del prevedibile e del previsto. Velha infancia è una canzone incastonata nel cuore della scaletta, ma è anche una definizione ossimorica che spiega bene quest’attitudine: attraversare il canone con la sbruffonaggine di una bimba che gioca. E il concerto, prima di due fragorosi bis e di un finale a cappella, si chiude con A menina dança – «la ragazza balla» – …un riferimento ludico, adolescenziale, che fa tornare tutti i conti.

Monte dal vivo suona un plotoncino di chitarre e chitarrine, ma non è sola sul palco ad inanellare questa sfilata di storiche composizioni. Ha rinunciato alla sezione fiati che l’accompagnava nel precedente tour, ma al suo fianco si ritrova comunque un pool di musicisti molto affidabili: il settantunenne bassista Dadi Carvalho, uno che ha fatto la storia del rock brasiliano suonando con i Novos Baianos e i Barão Vermelho, inciso con Mick Jagger e ispirato Caetano Veloso nella composizione di O Leaozinho. E ancora, il chitarrista Davi Moraes, figlio del compositore Moraes Moreira, il batterista Pupillo, già coi Nação Zumbi, il percussionista Pretinho da Serrinha, uno dei più gettonati autori di Samba in circolazione.

Il gruppo all’inizio ha più di un problema a creare la «bolla» di suono che la fragranza di brani così effervescenti richiederebbe. Si ritrova invece con una batteria quasi silenziata, basso senza pompa, la voce di Marisa che poteva avere un po’ più di volume.

NELLA seconda parte della scaletta la situazione migliora anche da questo punto di vista e già in De mais ninguém, cucinato con bandolim, cavaquinho, una chitarra acustica e un pandeiro, torna a risaltare l’ubiquità stilistica delle sue migliori composizioni. Il finale è un crescendo implacabile con molti brani – Ainda Bem, Eu Sei, Amor I Love You – cantati all’unisono col pubblico (e con la folta rappresentanza della comunità brasiliana). Já sei namorar, la hit mondiale dei Tribalistas – «Non appartengo a nessuno/ appartengo a tutti/ e tutti mi vogliono bene» – dovrebbe chiudere trionfalmente. Ma il pubblico ne vuole ancora e allora Marisa Monte si ferma da sola sul palco e intona Bem que se quis, la versione brasileira di E po’ che fa’ di Pino Daniele. Solo voce, limpida, a cappella col pubblico. «Já me esqueci de te esquecer», «Mi sono dimenticata di dimenticarti» canta Marisa nel testo in brasiliano. Mentre lascia il palco, in platea continuano a cantare questa canzone che sa di Italia, come di Brasile. Un finale perfetto, un congedo impeccabile.