Brasile, la destra mascherata da centro vince le elezioni municipali
Brasile Il blocco ideologicamente gelatinoso che governa con Lula, ma ora con contorni di destra via via più definiti, governerà il 62% dei 5.565 municipi del paese
Brasile Il blocco ideologicamente gelatinoso che governa con Lula, ma ora con contorni di destra via via più definiti, governerà il 62% dei 5.565 municipi del paese
In qualunque modo si leggano i risultati del secondo turno delle municipali brasiliane, il vincitore indiscusso è sempre il Centrão, ossia la destra mascherata da centro che governa con Lula – bloccandone le spinte più progressiste – come prima governava con Bolsonaro. Questo blocco ideologicamente gelatinoso sempre pronto a vendersi al miglior offerente, ma ora con contorni di destra via via più definiti, governerà infatti il 62% dei 5.565 municipi del paese, contro appena il 13% di una sinistra che, a sua volta, sta virando più marcatamente al centro.
Sorride a fatica il Pl di Bolsonaro, che, è vero, guiderà 516 città, ma solo 4 su 27 capitali, perdendo pure a Goiânia, dove l’ex presidente ci aveva messo la faccia. E se l’estrema destra gode complessivamente di ottima salute, è proprio la stella di Bolsonaro che appare offuscata: dopo aver sconfitto come previsto Guilherme Boulos a São Paulo, l’attuale sindaco Ricardo Nunes ha reso omaggio al governatore e suo mentore Tarcísio de Freitas, sempre più lanciato verso le presidenziali, e non all’ex presidente.
Di certo non ride la sinistra, la quale, in appena 12 anni, ha perso addirittura metà dei municipi, passando dai 1.468 del 2012 agli attuali 729, a dimostrazione di quanto paghi poco la difesa a oltranza della governabilità in un contesto dominato invece dai discorsi anti-sistema dell’estrema destra. E ciò malgrado il Pt abbia registrato un leggero recupero rispetto alle municipali del 2020: da 183 città conquistate alle 252 attuali, tra cui una sola capitale, Fortaleza.
Disastroso, in particolare, il risultato a Porto Alegre, la culla del bilancio partecipativo (ormai un lontano ricordo) e del forum sociale mondiale, dove l’attuale sindaco Sebastião Melo, ribattezzato “Sr. Enchentes” (Signor Alluvione) dopo la sua pessima gestione delle inondazioni dello scorso maggio, è stato incredibilmente premiato dagli elettori con il 61,5% dei voti contro appena il 38,4% di Maria do Rosário, figura assai rispettata all’interno del Pt, ma con meno chance di vittoria rispetto a leader più giovani e agguerriti.
È stato invece scongiurato il rischio che Belém, la città che ospiterà la Cop30, cadesse nelle mani di un bolsonarista, Éder Mauro, benché il vincitore, Igor Normando, un esponente del Centrão appoggiato anche dalle forze progressiste, non riveli nessun particolare interesse per il tema dell’emergenza climatica.
Del resto, in un anno che finora ha registrato inondazioni catastrofiche nel Rio Grande do Sul, siccità estrema in Amazzonia, ripetute ondate di calore e incendi tanto devastanti quanto dolosi dal nord al sud del paese, il tema della lotta al cambiamento climatico è rimasto fuori da tutti i dibattiti elettorali. Anzi, come ha denunciato la scrittrice e documentarista Eliane Brum, i distruttori della foresta sono stati persino premiati, perché «distruggere la natura porta voti».
Sul banco degli imputati è finito lo stesso Lula, accusato di portare avanti, in maniera schizofrenica, rivendicazioni contraddittorie o addirittura inconciliabili, annunciando, per esempio, la creazione dell’Autorità per il clima per «ampliare e accelerare» le politiche pubbliche di contrasto ai cambiamenti climatici e poi riducendo di quasi il 18% le risorse destinate alla transizione energetica nel bilancio 2025. Oppure rivolgendo in sede Onu un vibrante appello alla decarbonizzazione dell’economia, ma solo dopo aver sostenuto un furtivo tête-à-tête con i dirigenti della Shell.
Per non parlare della sua costante rivendicazione del ruolo del Brasile come paese leader nella lotta al cambiamento climatico, nel momento stesso in cui sostiene apertamente lo sfruttamento petrolifero nella foce del Rio delle Amazzoni. O dell’orgoglio con cui vanta una significativa riduzione del tasso di deforestazione in Amazzonia, promettendo di azzerarlo entro il 2030, mentre, contemporaneamente, decide di ridurre l’imposta sulla carne (malgrado il 90% del disboscamento sia dovuto alla creazione dei pascoli), preme sulla Ue per ritardare l’applicazione del regolamento anti-deforestazione sgradito agli esportatori brasiliani, neanche fosse il portavoce dell’agribusiness, e dà la benedizione a due grandi opere destinate a dare il colpo di grazia all’Amazzonia: la costruzione della Ferrogrão, la megaferrovia di 933 chilometri che attraverserà la regione per trasportare soia e mais violando i diritti delle comunità indigene e provocando la deforestazione di oltre 2mila chilometri quadrati e la pavimentazione del tratto della Br-319 che collega Manaus a Porto Velho, uno dei più incontaminati dell’Amazzonia, con un impatto disastroso su un’area superiore all’intero stato di São Paulo.
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