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L’ombra delle due destre sulle municipali in Brasile

L’ombra delle due destre sulle municipali in BrasileResti di volantini elettorali alla Rocinha, la favela più grande e famosa di Rio – Ap

Oggi i ballottaggi Giorno di ballottaggi. São Paulo inespugnabile e non solo. Bolsonaristi e un Centrão sempre meno di centro non sembrano lasciare chance a una sinistra che, secondo il filosofo Vladimir Safatle, «non ha nulla da dire alla periferia»

Pubblicato 13 giorni faEdizione del 27 ottobre 2024

Se il verdetto del primo turno delle municipali, il 6 ottobre corso, aveva decretato la vittoria – nettissima – delle forze conservatrici, non ci si può aspettare molto di diverso dal secondo turno che avrà luogo oggi in Brasile. A gongolare sono sia la destra bolsonarista, rappresentata in particolare dal governatore di São Paulo Tarcísio de Freitas, lanciatissimo come candidato alle presidenziali del 2026, sia soprattutto quella rappresentata dal mal definito Centrão (sempre meno di centro e più di destra), il cui principale esponente è oggi Gilberto Kassab, leader del Psd, il Partido Social Democrático diventato il più forte del paese con 874 municipi conquistati (circa 150 in più di quelli ottenuti da tutti i partiti della sinistra messi insieme).

Alla destra più radicale, capace ormai di guardare anche oltre Bolsonaro – come indica la vera rivelazione del primo turno, l’impresentabile influencer Pablo Marçal, rimasto fuori per pochissimo dal ballottaggio a São Paulo -, si affianca insomma un’altra destra, forse più saldamente radicata, in grado di combinare il conservatorismo in campo morale, l’ultraliberismo in campo economico e il pragmatismo in campo politico. Quel pragmatismo che ha indotto per esempio il Movimento Democrático Brasileiro (Mdb), giunto secondo con 844 municipi, ad appoggiare prima Dilma Rousseff, poi la sua destituzione, quindi il golpista Michel Temer, successivamente Bolsonaro e infine, ma in maniera assai elastica, Lula.

Nessun consistente segnale di ripresa si intravede invece a sinistra, la quale sembra ancora scontare la crisi esplosa nel 2016, quando l’ondata anti-Pt aveva permesso il golpe contro Dilma Rousseff e aperto la strada all’affermazione dell’estrema destra. Al primo turno, il partito di Lula ha ottenuto 248 municipi – più dei 183 del 2020 ma ancora molto meno dei 629 del 2012 -, conquistando appena due città con più di 200mila abitanti e nessuna capitale.

Né ci sono molte chance, per le forze progressiste, di espugnare São Paulo, dove il candidato del Psol (Partido Socialismo e Liberdade) Guilherme Boulos, appoggiato da Lula e da un’ampia coalizione simile a quella che governa il paese, è indietro ancora di vari punti rispetto a Ricardo Nunes, l’attuale sindaco bolsonarista sostenuto anche da Tarcísio de Freitas.

Molto si dibatte, in Brasile, sulle cause di tale crisi, che vari osservatori riconducono all’assenza di una visione di futuro per il paese, all’incapacità di comunicare con le masse, all’assenza di figure carismatiche e alla difficoltà di rinnovamento interno, a un offuscamento ideologico che impedisce di perseguire alternative all’esistente. Al punto che, come sottolinea l’intellettuale militante Antônio Martins, il governo non solo non ha neppure tentato di cancellare la nefasta controriforma del lavoro realizzata da Michel Temer ma ha addirittura sposato la strategia neoliberista dell’aggiustamento fiscale portata avanti dal ministro delle Finanze Fernando Haddad, rinunciando così a quello strumento decisivo di protezione delle fasce più basse che è l’aumento della spesa sociale.

«Qui il governo non ha neppure avuto bisogno di avversari. Lavora contro se stesso, probabilmente per cecità e sottomissione ideologica», sottolinea Martins, ponendo l’accento sul «sottofinanziamento» cronico del settore sanitario, dell’istruzione, dell’ambiente (a cui verranno destinate nel 2025 meno risorse «che quelle del primo anno di Bolsonaro»).

«La sinistra non ha nulla da dire alla periferia», denuncia non a caso il filosofo e docente dell’Università di São Paulo Vladimir Safatle, convinto che, «se le cose dovessero continuare così, la destra radicale tornerebbe di certo al potere nel 2026». «Chi detta l’agenda – sostiene – è oggi l’estrema destra», mentre la sinistra non sembra andare oltre il tentativo disperato «di costruire un fronte ampio per cercare di fermarne l’ascesa». Con il rischio, tuttavia, di rinunciare alle proprie bandiere ideali, limitandosi alla difesa del potere giudiziario, delle istituzioni, della «normalità democratica» e abbandonando qualsiasi visione anti-sistema. «È per questo – dice – che la sinistra è morta»: solo «chi radicalizza il proprio discorso sopravvive».

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