Economia

Manovra: il festival dei tagli al Welfare e ai servizi

La presidente del Consiglio Giorgia MeloniLa presidente del Consiglio Giorgia Meloni – Ansa

I tagli agli italiani Tra ministeri, regioni e comuni meno 5 miliardi di euro in pochi anni. Ecco i «sacrifici» chiesti da Giorgetti: non alle banche, ma a scuola, università e enti locali. Santanché: «Contenta di partecipare. Essere bravi con meno soldi»

Pubblicato 3 giorni faEdizione del 24 ottobre 2024

Per non tagliare ora una sanità già definanziata, tagliano il resto. In questo tragico paradosso si riassume la terza legge di bilancio del governo Meloni «bollinata» e controfirmata dal Quirinale ieri. È l’inizio del nuovo ciclo di austerità che potrà durare anche sette anni in ossequio alle regole del nuovo «patto di stabilità» europeo firmato dall’esecutivo.

MENTRE LA PRODUZIONE industriale sta crollando da diciannove mesi consecutivi, la povertà aumenta e il potere di acquisto dei salari non regge una spesa al supermercato si attaccano il Welfare, i servizi pubblici e sociali, i trasporti locali e le altre prestazioni fornite dagli enti locali. La scure si abbatte sui ministeri a cominciare dalla scuola che taglierà 5.660 posti ai docenti e 2174 al personale Ata, al ministero della cultura che esce malconcio fino alla Rai che taglierà il 2%. Senza dimenticare l’università, già soggetta a un taglio precedente da 173 milioni di euro. Domani alla Sapienza ci sarà un’assemblea nazionale contro lo scempio. Non è finita.

L’IMPATTO che avrà la manovra nell’immediato può essere compreso leggendo due articoli di un testo che ne contiene 144. Si tratta degli articoli 104 e 109. Il primo riguarda gli «enti territoriali», cioè regioni, comuni, province e città metropolitane. Saranno tagliati nei prossimi 5 anni complessivamente 3 miliardi e 930 milioni di euro. Due miliardi e 430 milioni alle regioni, 1 miliardo e 500 milioni agli altri. Così ripartiti: alle regioni saranno trattenuti 280 milioni nel 2025; 840 milioni dal 2026 al 2028; 1 miliardo e 310 milioni nel 2029. A comuni, province e città metropolitane 140 milioni nel 2025; 290 milioni dal 2026 al 2028; 490 milioni nel 2029.

AI MINISTERI, si legge nell’articolo 109 della manovra, nel periodo compreso tra il 2025 e il 2027 sono previsti tagli («spending review» collegata al Pnrr) da 300 milioni di euro nel 2025, 500 milioni nel 2026, 700 milioni nel 2027. Sommati, i «sacrifici» di cui ha parlato il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ammontano a 5 miliardi e 430 milioni di euro. Sono tagli spalmati su periodi diversi, comunque interni ai sette anni di austerità che il governo ha chiesto alla Commissione Europea nel piano strutturale di bilancio inviato a Bruxelles insieme alla manovra. Va segnalato anche che nella relazione alla legge di bilancio e nelle relative tabelle si parla di una realtà preoccupante. Nella relazione si legge di tagli ai ministeri addirittura maggiori: «5,2 miliardi nel 2025, 4 miliardi nel 2026, 3,5 miliardi nel 2027» per un totale di 12 miliardi e 700 milioni.

SIAMO SOLO ALL’INIZIO di un percorso che si annuncia drammatico e tortuoso. Nella sostanza la spesa sociale sarà congelata in un paese dove sono stati già tagliati 1,1 miliardi di euro al «reddito di cittadinanza» poi rinominato. Sempre che le modeste previsioni della crescita siano mantenute e quelle di decremento del maxi-debito pubblico siano rispettate. Ieri il Fondo Monetario Internazionale ha chiesto di «intervenire subito». Con i tagli, s’intende. I 13 miliardi di euro di tagli all’anno che Meloni & Co. si sono impegnati a tagliare potrebbero salire. E il bilancio potrebbe essere più pesante l’anno prossimo.

SONO SCELTE POLITICHE. Il governo ha deciso di ridurre i dipendenti pubblici con il ripristino del blocco parziale del turn-over, tagliare gli enti locali e le assunzioni nella sanità, peggiorare le pensioni pur di non tassare le grandi ricchezze, intervenire sui profitti speculativi post-covid delle aziende farmaceutiche o energetiche. E con le banche ha trovato un trucco contabile che permette di rinviare le deduzioni sulle valutazioni e sulle imposte differite attive. Da questa misura il governo si aspetta circa 3,4 miliardi tra il 2025 e il 2026. Una misura che contrasta con i veri «sacrifici» chiesti ai cittadini attraverso i tagli agli enti locali.

L’ALTRA MISURA significativa della manovra è la conferma dell’accorpamento delle aliquote Irpef su tre scaglioni vale circa 4,8 miliardi nel 2025, 5,5 miliardi nel 2026, 5,2 miliardi dal 2027, mentre la revisione del taglio del cuneo costa complessivamente 12,8 miliardi. Tra Irpef e cuneo si arriva quindi a superare i 17 miliardi, contro i 14 circa della scorsa legge di bilancio.

TRA LE MISURE minori, ma in qualche modo significative del clima politico nazional-nativista impresso dal melonismo, c’è una partita di giro. Per finanziare il «bonus bebè» per i nuovi nati il governo ha tagliato la detrazione per i figli a carico dopo i trent’anni. Una norma che colpisce chi è precario ed è sostenuto dalla famiglia anche con questi sostegni fiscali indiretti. Un cortocircuito: si toglie qualcosa a chi ha già poco per dare un’altra cosa a chi nasce.

PIÙ CHE SOFFERMARSI su altri dettagli è preferibile concentrarsi sugli impatti stimati macroeconomici. Il governo sostiene che questa manovra in fondo modesta dovrebbe avere un impatto altrettanto mediocre sul prodotto interno lordo tra lo 0% e lo 0,3%. È il minimo che possa accadere senza investimenti, tagliando la spesa sociale, assicurando risorse del tutto insufficienti ai contratti pubblici. Ma sono effetti già visti nel primo round dell’austerità, una quindicina d’anni fa. Ora si replica, con un paese ancora più malmesso.

IL PREMIO DEL GIORNO per la dichiarazione più incredibile, ma in fondo in linea con l’epoca che si sta aprendo, va senz’altro alla ministra del turismo Daniela Santanché: «La spesa della nostra nazione è tanta, quindi ci sono spazi per quella improduttiva – ha detto – Io sono contenta di potere partecipare. Essere bravi vuol dire anche fare le cose avendo meno soldi, con i soldi sono bravi tutti». Soprattutto quando non sono i propri, ma degli italiani. I «sacrifici» non sono mai dei dominanti. Ora dicono di farli in nome della «Nazione».

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