Legge di bilancio: come prima, più di prima
«Una svolta rispetto alle legislature precedenti» è stata pomposamente definita dal governo la Legge di Bilancio approvata nei giorni scorsi dal Consiglio dei Ministri e spedita a Bruxelles per ricevere l’imprimatur entro fine novembre.
Ma, fuori dalla narrazione dominante, che cosa prevede realmente?
Iniziamo a dire che supera i 20 miliardi il tributo che anche quest’anno il nostro Paese depone ai piedi dell’altare dei vincoli di Maastricht: si tratta di oltre 10 miliardi dovuti alla procedura d’infrazione per eccessivo deficit (cifra che pagheremo costantemente per i prossimi sette anni), ai quali va aggiunto il mancato acquisto dei titoli di Stato da parte della Banca Centrale Europea, che farà lievitare di altri 10 miliardi gli interessi che il Ministero dell’Economia dovrà pagare per doversi finanziare sul mercato bancario.
«Ma finalmente pagano le banche» ha annunciato la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni con piglio da rivoluzionaria, seguita dal Ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che ha subito rincarato utilizzando la parola “sacrifici”.
Peccato che i 3,5 miliardi (in due anni) annunciati come “contributo” al Paese da parte del sistema bancario non siano né una tassazione sugli extra-profitti realizzati nel biennio scorso (oltre 100 miliardi!), né un prelievo “una tantum”, ma semplicemente un’anticipazione sulle future imposte, con esborso finale pari a zero per le banche coinvolte.
«Abbiamo investito sulla sanità» ha chiosato la premier «realizzando un record nella storia del finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale».
Con queste parole, Giorgia Meloni dichiara di aver aumentato lo stanziamento di 6,4 miliardi nei prossimi due anni, ma, come dimostrano i calcoli della Fondazione Gimbe -da sempre fonte ben informata- l’aumento vero è solo di una cifra irrisoria, pari a 860 milioni, totalmente insufficiente rispetto alle necessità più volte espresse dal mondo di chi lavora nella sanità.
Se a tutto questo aggiungiamo una politica fiscale nettamente regressiva che prevede il condono fiscale per gli evasori del periodo 2018-2022, un approfondimento della flat tax, la diminuzione delle imposte sui redditi da capitale e i provvedimenti in favore dell’autonomia differenziata, il quadro è chiaro: non è in campo nessuna soluzione di continuità rispetto ai governi precedenti, bensì la riproposizione della medesima ricetta, basata su austerità, sostegno ai ceti medio-alti e alle imprese e tagli ai servizi della collettività.
Come dimostrano gli oltre 20 miliardi messi a ricavo per la privatizzazione degli ultimi asset pubblici del Paese e il taglio del 5% delle risorse in capo ad ogni Ministero, che come ciascuno può intuire, non andrà ad eliminare alcuno spreco strutturale, ma sarà indirizzato all’ennesimo taglio lineare dei servizi di interesse generale.
Da ultimo, ma non per importanza, l’ennesimo taglio alle risorse degli Enti Locali, come se tre decenni di drastiche riduzioni dei finanziamenti non avessero già reso in stato comatoso le casse dei Comuni, i quali pur contribuendo al debito pubblico nazionale per una irrisoria percentuale (1,4%), si sono viste ridotte di oltre 15 miliardi le risorse su cui contare per fornire i servizi agli abitanti dei territori amministrati.
In tutto questo, c’è un settore che non solo non vedrà tagli, ma potrà contare su un ingente aumento delle risorse pubbliche messe in campo: è il settore della Difesa e dell’industria di produzione degli armamenti, che nella nuova dimensione della penetrazione della guerra nell’economia, nella società e nella vita delle persone non può che proliferare.
Del resto, per coloro i quali dovessero ancora una volta dimostrarsi renitenti alla narrazione dominante o addirittura organizzarsi per protestare, c’è un decreto sicurezza appena sfornato che ne chiarisce i margini di manovra: zitti e buoni, è tutto vietato. Ma chi lo dice che il fiore è nero?
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