Tutto ha origine da un banale incidente di laboratorio e un medico intento a lavorare su un vaccino contro la peste si trasforma nel paziente zero di una nuova epidemia. Nei tempi drammatici segnati dal Covid, l’ultimo libro di di Ludmila Ulitskaya, drammaturga e scrittrice tra le più significative del panorama russo, potrebbe far pensare ad una riflessione sul presente quando si tratta invece di un testo che l’autrice, nata negli Urali nel 1943, aveva scritto nel 1988 come prova d’ammissione ai Corsi superiori di regia e sceneggiatura di Valerij Frid a Mosca.

Al centro di Era solo la peste, che esce ora per La nave di Teseo (traduzione di Margherita De Michiel, pp. 175, euro 16) più che l’epidemia c’è infatti la Mosca del 1939, profondamente immersa nel clima plumbeo e terrificante dell’era staliniana dove nessuno penserebbe mai che si possa correre un pericolo maggiore dall’essere trascinati via dalle proprie case nel cuore della notte da agenti in borghese ai quali è inutile chiedere chi siano o per conto di chi agiscano. Così nel romanzo, che ha la struttura circolare e il linguaggio diretto di un’opera pensata per il teatro, quando la polizia politica interviene per circoscrivere il virus arrestando e ponendo in isolamento tutti coloro che possono essere entrati in contato con persone infette, ognuno si interroga in realtà su quale sarà la propria sorte: la deportazione in Siberia, un processo farsa, un colpo alla testa e via?

Non a caso Ulitskaya, che si è spesso contrapposta alle scelte del Cremlino nel corso degli ultimi anni, ha lasciato Mosca alla volta di Berlino all’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina proprio per la sua opposizione alla guerra. E, nelle prime pagine del libro sottolinea, lei che ha studiato Biologia e ha lavorato all’Istituto di Genetica di Mosca prima di dirigere il Teatro ebraico della capitale russa e dedicarsi completamente alla scrittura, che a preoccuparla più delle malattie sono le ricorrenti «epidemie di autoritarismo».

Tra le protagoniste del festival La Milanesiana, ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi, Ludmila Ulitskaya sarà domani sera al Santuario di San Giuseppe di Milano, dove riceverà il Premio Rosa d’Oro della Milanesiana, e giovedì sera all’Almo Collegio Borromeo di Pavia.

La storia che lei racconta muove da un episodio avvenuto a Mosca nel 1939, in piena epoca staliniana. Cosa accadde esattamente allora e cosa hanno saputo di tutto ciò i cittadini sovietici, all’epoca come in seguito?
Infatti la storia è vera. Sono venuta a conoscenza dei dettagli da alcune persone che vi hanno preso parte direttamente. Anche se in giro se ne sapeva poco. Le strutture di potere organizzarono una serie di arresti per evitare che si diffondessero le informazioni su un’epidemia. A quei tempi gli arresti erano continui. Ma in questo caso gli arrestati venivano rilasciati presto: dopo la scadenza del periodo di quarantena. I cittadini sovietici non sapevano nulla dei veri retroscena di questi arresti. Ciò che avrebbe potuto sorprendere degli osservatori attenti era proprio la rapidità con cui avvenivano i rilasci, quando le pene inflitte a quei tempi erano mostruosamente lunghe. Anche per reati piccolissimi, o solo presunti, o addirittura mai commessi. All’epoca molte accuse venivano semplicemente inventate del tutto dalle autorità investigative. L’avere copiato a mano o battuto a macchina le opere dei filosofi pre-rivoluzionari poteva essere considerato più grave della rapina o dell’omicidio. È incredibile come questo potere degli ignoranti riuscisse a scovare dovunque anche un minimo respiro del libero pensiero. Ciò detto, in questa storia non mi interessa soprattutto il comportamento delle autorità, di cui la brutalità era una caratteristica fondamentale, quanto piuttosto le diverse reazioni della gente: dalla paura più istintiva al sentimento della responsabilità sociale. Ed ho cercato di ricreare questo quadro sfaccettato a partire da materiali molto scarsi ma davvero interessanti.

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I personaggi del libro avvertono la paura, il sospetto, l’incertezza. Ciò che li accomuna è la sensazione che, come dice uno di loro, «meno si sa, meglio è», la consapevolezza che fare troppe domande significa cacciarsi nei guai. Una tale atmosfera caratterizzava solo la Russia staliniana o ci parla anche nella Mosca di oggi?
La storia della Russia può essere scritta come la storia dei poteri punitivi. Si può iniziare questa storia dai tempi di Ivan il Terribile, che creò una potente organizzazione per la ricerca e la tortura degli oppositori politici. E arrivare alla fine al periodo di massimo splendore della potente organizzazione che prima si chiamava Gpu, poi è diventata Nkvd, poi è diventata Kgb e oggi si chiama Fsb, e che ha sempre il polso sia della società sia del potere. Nel nostro Paese si tratta sempre di capire chi comanda su chi: i vertici del governo sulla polizia segreta o la polizia segreta sui vertici del governo? Qualsiasi regime totalitario o simile costruisce situazioni di questo tipo. Ma nel mondo di oggi, dove l’informazione è diventata facilmente accessibile grazie a potenti strumenti di comunicazione, è arduo occultare o falsificare il vero stato delle cose. In epoca sovietica l’accesso alle informazioni era molto più problematico: le radio occidentali erano vietate e si poteva ricevere una pena detentiva da cinque a sette anni per aver letto libri «vietati», e peggio ancora per averli copiati. Avvenivano dei casi veramente atroci… Oggi invece, grazie alla rete, si può dire che le informazioni cadano dal cielo!

Nella prefazione al libro di Elena Kostioukovitch («Nella mente di Vladimir Putin», La Nave di Teseo; l’autrice è stata intervistata su queste pagine il 29 aprile) lei scrive che la guerra scatenata da Putin contro l’Ucraina è il risultato di una follia «più contagiosa del Covid e più letale di qualsiasi pericolosa pandemia». Come valuta la situazione attuale?
Cosa posso dire, non faccio altro che rifletterci. Per me ogni mattina inizia con le notizie sul web e termina ogni sera con le stesse notizie. Qualsiasi nuova infezione sarà sconfitta in breve tempo! I progressi della scienza moderna sono enormi. La peste e la poliomielite sono state vinte, l’Aids e molte forme di cancro sono state quasi sconfitte… Invece l’arcaica follia bellica sembra essere incurabile. È la follia degli Stati che hanno perso la loro sobrietà. Eppure è evidente come i processi negoziali siano mezzi molto più efficaci delle azioni militari per risolvere i problemi. E sicuramente di un costo infinitamente minore per l’umanità. Mi sembra – ma potrei anche sbagliarmi – che i vertici di Mosca stiano già pensando, anche se un po’ tardivamente, se per caso non sia giunto il momento di fare marcia indietro e di chiedere una tregua. Temo che il protagonista di questa «operazione speciale» abbia paura di «perdere la faccia». Ma la mia valutazione al riguardo è semplice: meglio che lui «perda la faccia» piuttosto che migliaia di famiglie perdano invece i loro figli. E non sto certo parlando del suo volto poco interessante, bensì del suo potere immutato da vent’anni a questa parte.

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Nei suoi romanzi, a partire da «Il sogno di Jakob», emerge spesso come i desideri e la volontà personale degli individui abbiano dovuto subire il peso della storia sovietica, forse non soltanto durante lo stalinismo. Qualcosa di simile è accaduto di nuovo a Mosca nell’ultimo ventennio?
Qualsiasi potere totalitario cerca di catturare l’anima delle persone, di sopprimere i desideri e di soggiogare completamente la volontà umana. Il periodo dello stalinismo lo dimostra nel modo più chiaro e evidente. Ma questa tendenza in Russia non è iniziata con Stalin e non è finita con lui. A quanto pare c’è qualcosa che predispone sempre a una tale tendenza violenta nei rapporti tra governo e popolo in Russia. Tuttavia, anche se consideriamo l’«infezione del totalitarismo» come una malattia tipica russa, va notato che essa si è diffusa ampiamente in tutto il mondo, non solo in Oriente, ma anche in Occidente e in America Latina…

Il tema della verità fa da sfondo a «Era solo la peste»: se ne esiste solo una «ufficiale», se i cittadini hanno strumenti per conoscerla davvero e, su tutto, quanto di ciò che siamo e facciamo può dipendere da questa conoscenza. È prima di tutto l’accesso alla verità a rendere libera una persona?
È una domanda filosofica complessa. A partire dalla storia che ho raccontato si possono fare diverse considerazioni. I problemi epidemici dovrebbero essere risolti innanzitutto dagli epidemiologi. I quali a volte possono anche rivolgersi alla polizia per circoscrivere la diffusione dell’epidemia. Ma chi può garantire le azioni di queste organizzazioni di polizia? Solo una società civile forte. È la società civile a determinare il grado di libertà di una persona. A questo proposito, il livello di cultura della popolazione è estremamente importante: più alto è questo livello, meglio si risolvono anche i problemi di lotta alla pandemia. Attribuisco molta importanza a questo fattore. Il livello della civiltà della popolazione. Quanto più un Paese è analfabeta, tanto più pericolosa è l’infezione, anche quando di tratta di una banale influenza. E lo stesso si potrebbe dire in qualche modo per il confronto tra autoritarismo e democrazia.