L’onore perduto della Russia. Avrebbe potuto intitolarsi così il libro di memorie che Marat Gabidullin ha dedicato alla sua esperienza in seno al gruppo di mercenari che opera da poco meno di un decennio al servizio del Cremlino. Questo perché l’autore di Io, comandante di Wagner (Libreria pienogiorno, pp. 284, euro 18,90), rivendica fino in fondo la scelta del «mestiere delle armi» che lo ha portato dopo un’iniziale carriera tra i paracadutisti e l’aviazione russa, e alcuni anni in cui ha conosciuto la depressione, l’alcol, la malavita e il carcere, ad integrare i ranghi dell’«esercito segreto» di Putin.

Nato nel 1966 e cresciuto nel mito della forza e della potenza della Russia sovietica, Gabidullin è perciò un testimone significativo e attendibile per inquadrare al meglio il ruolo svolto da questa compagnia mercenaria in relazione con il potere moscovita. Le sue affermazioni, le sue parole come i suoi silenzi, hanno il peso di una denuncia non solo scomoda, ma in qualche modo inappellabile: vengono dall’interno di quell’apparato militare ufficialmente invisibile che è parte della strategia bellica e politica che ha accompagnato l’ascesa e il consolidamento del regime putiniano.

LA STORIA di «soldato dell’ombra» che racconta Marat Gabidullin inizia nell’estate del 2015 in Donbass e prosegue con le tre «campagne» cui ha preso parte in Siria. Malgrado potesse contare su una preparazione militare significativa, l’uomo inizia la sua esperienza come «soldato semplice» per finire poi a guidare un reparto in qualità di «comandante», malgrado l’assenza di gradi e di una gerarchia formale nella struttura.

Lascia la Wagner nel 2019 a causa delle brutalità che ha visto commettere dai propri compagni – l’ultimo caso un civile siriano torturato, decapitato e il cui corpo è stato dato alle fiamme -, ma anche perché si dice «nauseato» dalla doppiezza della autorità russe che utilizzano i mercenari come «carne da cannone» cui far svolgere ogni genere di «lavoro sporco» e i cui caduti non sono registrati dalle autorità e non sono pianti da nessuno almeno pubblicamente, negandone però l’esistenza. Con il risultato che migliaia di vittime morte per gli interessi russi dall’Ucraina al Mali, passando per la Siria, la Libia e la Repubblica Centrafricana – tutte zone in cui hanno operato o operano ancora – restano sconosciute all’opinione pubblica come al bilancio del ministero della Difesa di Mosca. Pagati cash, con stipendi anche cinque/sei volte più consistenti di quelli medi nel Paese, i combattenti del gruppo Wagner avrebbero raggiunto fino alle 10mila unità e si attesterebbero ora intorno alle 5/6mila.

La redazione consiglia:
Quella rivoluzione conservatrice di Mosca alle radici del conflitto

IN SIRIA, dove è rimasto anche ferito in modo molto grave, scontrandosi con l’Isis Gabidullin ritiene di aver combattuto contro dei tagliagole pericolosi, malgrado i mercenari russi sostenessero prima di tutto il regime e l’esercito di Assad. Diverso il suo sguardo sul conflitto nel Donbass, dove il gruppo Wagner ha mosso i suoi primi passi già nel 2014 appoggiando i «separatisti» di Donetsk e Lugansk. Nell’estate del 2015, lasciando quella zona dopo un periodo di «ricognizione» a favore degli insorti, l’ex mercenario sottolinea come sia attraversato da «un sentimento misto di frustrazione e delusione». «Mi ero reso conto in fretta, scrive Gabidullin, di quanto fosse falsa e illusoria la presunta nobile causa che sosteneva di difendere gli interessi della Russia di fronte alle ingerenze di una potenza straniera ostile».

Un combattente del gruppo Wagner (wargonzo)

Durissimo anche il suo giudizio sui combattenti locali che i mercenari non hanno solo il compito di appoggiare, ma anche di «contenere» o addirittura eliminare quando sono all’origine di traffici criminali – come il furto delle auto presenti nelle concessionarie delle zone occupate. Secondo lui infatti, «la “Repubblica Popolare di Lugansk” era di fatto una piccola comunità di persone prese in ostaggio da una banda di barbari analfabeti che avevano avuto accesso alle armi». Figure che «compivano la volontà di altre persone che, palesemente, non erano mosse da ragioni morali»: con ogni probabilità una parte del potere russo.

Perché ciò che emerge dal racconto serrato di ciò che ha visto e vissuto Marat Gabidullin nel corso dei quattro anni che ha passato nel gruppo Wagner, riguarda da un lato il modo in cui «la compagnia» stessa incarni una delle caratteristiche dell’odierno potere russo, dall’altro quale sia il profilo dei suoi membri e il loro modo di operare o il contesto nel quale si muovono. Facente capo a Evgenij Prigožin, un ex criminale legato al leader del Cremlino fin dai tempi di San Pietroburgo e che per la sua attività nel campo della ristorazione è noto come «il cuoco di Putin», il gruppo Wagner porta alle estreme conseguenze l’occupazione del potere e dello Stato operata dal clan presidenziale: di fatto «privatizza» la sfera della difesa, riducendo al massimo i costi e ottimizzando i profitti anche in termini di controllo politico, di fatto si tratta di un esercito privato schierato a proprio piacimento dai vertici del Cremlino.

L’altro profilo della vicenda si può far risalire a Dmitrij Utkin, l’ex tenente colonnello del Gru, il servizio di intelligence militare russo che per conto di Prigožin ha costruito e guidato «la compagnia» fin dal 2014. È a lui, grande ammiratore di Adolf Hitler e che mostra con orgoglio tatuaggi delle SS e della kolovrat, la «svastica slava», che si deve il nome stesso del gruppo di mercenari, in omaggio a Richard Wagner. Non a caso, tra i combattenti del gruppo moltissimi sono legati al neonazismo o sono adepti di una sua versione locale, la rodnoveria, o «fede nativa» un movimento neopagano slavo che sembra ispirarsi alla «dottrina ariana» del Terzo Reich, emerso già alla fine degli anni Ottanta e che vanta molti sostenitori nel circuito della destra radicale.

DOPO AVER ASSISTITO con crescente disagio ad ogni sorta di abuso commesso dai propri commilitoni, violenze spesso culminate nella tortura e nell’omicidio, Marat Gabidullin ha deciso che malgrado questo lo esponesse all’accusa di essere diventato un «nemico del popolo» russo, era venuto il momento di voltare pagina e denunciare il ruolo e i legami del gruppo Wagner con il potere. Le sue memorie intendono spiegare l’uso che il Cremlino fa di questi mercenari, ma anche riflettere sul modo in cui la storia e la cultura del Paese sono utilizzate per gli interessi del regime. «La nostra cosiddetta identità tanto singolare, spirituale e romantica, scrive Gabidullin, non è altro che un mito, alimentato da coloro che ne traggono profitto».