La più grande guerra che l’umanità ha dovuto affrontare è quella appena iniziata contro il riscaldamento globale: uno strano conflitto che ci vede sia nel ruolo di attaccanti, ne siamo infatti responsabili, sia in quello di difensori, in realtà assai tardivi nella risposta e quasi completamente inermi.

Le previsioni più pessimistiche indicano che l’esito di questa guerra potrebbe minacciare la sopravvivenza della stessa umanità, mentre quelle più ottimistiche si fermano ad un innalzamento del livello del mare che minaccerebbe le città costiere, variazioni nelle precipitazioni – con alluvioni e siccità che indurranno crisi alimentari su vasta scala – incremento della frequenza degli uragani, pandemie, intensificazione dei flussi migratori e instabilità politica.

C’è chi sostiene che, anche in questa come in tutte le guerre, sarà necessario limitare la democrazia per imporre rapidamente strategie non gradite ai singoli ma indispensabili per l’umanità. Secondo alcuni ricercatori, l’esperienza fatta con il Covid-19 ci sarà utile nel momento in cui dovremo sviluppare azioni di adattamento all’innalzamento del livello del mare, che nel 2100 potrebbe raggiungere i 2,5 metri.

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Si pensa che la democrazia renda difficile attuare quelle lungimiranti politiche di contrasto al cambiamento climatico che richiedono sacrifici oggi per garantirsi un domani migliore, perché l’impatto diretto e indiretto del riscaldamento globale sul processo decisionale produce politiche di piccoli passi, accettabili dagli elettori ma certamente non sufficienti.

Lo stesso Lovelock, il ‘padre’ di Gaia, ha scritto che se vogliamo vincere questa guerra dobbiamo mettere da parte la democrazia, almeno per un po’ tempo; ma Ludvig Beckman ci avverte che una interruzione della democrazia è spesso un processo irreversibile. Inoltre, quella contro il riscaldamento globale sarà una guerra che dovrà durare in eterno! È comunque un’idea che, dagli anni ’70 ad oggi, ha trovato sempre più sostenitori, ma che viene sconfessata da chi, come Daniel J. Fiorino, studia il rapporto fra il progresso che i vari Paesi fanno verso gli obiettivi necessari a vincere la guerra (es., quelli indicati nei Protocolli di Kyoto e di Parigi) e il loro livello di democraticità.

Il progresso si può misurare con diversi indicatori, fra cui il Ccpi (Climate Change Performance Index) che valuta gli sforzi fatti e gli obiettivi raggiunti nella lotta al riscaldamento globale, considerando non solo l’emissione di gas serra e la sua tendenza, ma anche l’efficienza energetica, l’uso di fonti rinnovabili e le politiche che sono state sviluppate. Analogamente, gli indici di democraticità, come l’Edi (Economist Democracy Index), considerano diverse componenti, fra cui la libertà di voto e d’informazione, la parità di genere, il diritto all’istruzione e alla salute, il bilanciamento dei poteri e il livello di corruzione.

Facendo affidamento a questi indici, emerge che i Paesi che si pongono ai primi posti nella graduatoria di democraticità, lo sono anche in quella della lotta al riscaldamento globale; anche se la correlazione non è sempre così diretta.

Cina e Stati Uniti hanno un livello di democraticità assai diverso (Edi 1,94/10 e 7,85/10 e ricadono rispettivamente nelle categorie ‘regime autoritario’ e ‘democrazia imperfetta’) mentre sono appaiate, quasi in fondo alla graduatoria, per l’impegno sul clima: la Cina ha un Ccpi pari a 38,80/100, contro il 38,53/100 degli Usa, e ciò grazie ad un forte e recente impegno nella produzione di energie rinnovabili.

Con un Ccpi di 52.9/100, l’Italia si pone al 19° posto sui 63 paesi analizzati e che producono il 92% dei gas serra (con una valutazione ‘Media’), mentre con un Edi pari a 7,69/10 è 34° e considerata una ‘democrazia imperfetta’. Fra i fattori che favoriscono il successo in materia ambientale nei Paesi democratici viene indicata la libertà d’impresa, che spinge a sviluppare nuove tecnologie, mentre i molti organismi con potere di veto, necessari per garantire gli interessi di tutte le componenti della società, sembrerebbero essere d’intralcio nel percorso verso la sostenibilità.

Fra i sistemi democratici, una sostanziale differenza si ritrova fra quelli nazionali e quelli federali. Quest’ultimi possono mostrare realtà regionali assai differenziate, come appare negli Usa, dove negli Stati in cui vi sono abbondanti giacimenti di carbone vi è una maggiore opposizione alla transizione ecologica, ma gli ‘stati verdi’ sono riusciti a non fare precipitare gli Stati Uniti ancora più in basso nella classifica Ccpi nonostante la politica forsennata di Trump.

Seguendo l’evoluzione del Ccpi nei paesi democratici si notano impennate o flessioni con l’alternarsi di maggioranze diversamente orientate sui problemi sociali ed ambientali, e un elemento positivo è risultato essere la democrazia partecipata, anche a livello sub-nazionale, con esempi interessanti in Irlanda, Regno Unito, Francia, e, recentemente in Montenegro, con le assemblee dei cittadini sulle variazioni climatiche e sull’erosione costiera.

Anche se gli stress conseguenti al riscaldamento globale determineranno instabilità politica, non sembra che i sistemi con democrazia consolidata debbano temere, ma risulta altresì che si potrà avere un più rapido ricambio degli eletti, sia a livello nazionale sia locale. Con uno studio su 19 paesi, con 4.800 elezioni a cui hanno partecipato 1,5 miliardi di persone fra il 1925 e il 2011, Nick Obradovich indica che, nei Paesi in cui la temperatura media annua è superiore a 21°C, l’incremento della temperatura ha determinato un più rapido ricambio dei rappresentati.

Questo spinge i partiti politici e i singoli candidati a proporre soluzioni di breve termine, che sono proprio quelle che ci porteranno verso la disfatta.

 

*Docente climatologia e difesa dei litorali; Pres. Gruppo nazionale ricerca ambiente costiero, membro della task force “Natura e Lavoro”.