Tutto è iniziato con le proteste pacifiche contro la distruzione di uno dei pochi parchi rimasti in centro a Istanbul, il Parco Gezi. Qui è nato, nel giugno 2013, la rivolta popolare più grande della storia della Repubblica di Turchia. Più di sette milioni di persone, quasi ininterrottamente per circa quattro mesi, sono scese in piazza in settantanove città del paese. Un’occasione storica in cui le masse hanno alzato la voce contro un regime fondamentalista, nazionalista, saccheggiatore, sessista, criminale e omo-transfobico.

LA SERA del 29 maggio 2013 una decina di persone posero tende dentro il parco con l’obiettivo di essere presenti sul posto quando il giorno dopo sarebbero arrivate le ruspe per sradicare gli alberi. Il parco, nonostante i numerosi pareri contrari dei tribunali, sarebbe stato distrutto per far spazio, in parte, a un centro commerciale ospitato dentro una storica caserma militare, la famosa Topçu Kıslası, costruita nel 1806 in epoca ottomana, e distrutta nel 1940, pochi anni dopo la nascita della Repubblica.

La redazione consiglia:
Gezi Park, le rose contro il potere

Il violento intervento notturno della polizia e lo sradicamento degli alberi secolari avvenuto il giorno dopo spinsero numerose persone a raggiungere il parco. Nelle prime ore del primo giugno Gezi Park era pieno di cittadini, ma c’erano anche parlamentari e telecamere. Sirri Sureyya Onder, all’epoca parlamentare d’opposizione per la città di Istanbul, davanti alle ruspe disse: «Io rappresento anche questi alberi, li devo difendere».

I VIGILI del Comune di Istanbul travestiti da operai dell’azienda vincitrice dell’appalto si fermarono. Ormai gli occhi e le orecchie di tutta la nazione erano su Gezi: mancavano solo i «principali» canali tv. Squillavano i telefoni, partivano milioni di tweet e il numero delle persone che raggiungevano il parco aumentava sempre di più. Il tono dei governatori, all’inizio pacifico, pian piano si riempiva di minaccia: la sera del primo giugno la polizia decise di intervenire con idranti, lacrimogeni e manganelli. In quel momento nasceva una rivolta popolare che avrebbe segnato i mesi seguenti della Turchia.

Molotov lanciata verso la polizia, luglio 2013 (Ap/Kostas Tsironis)

In pochi giorni la polizia, mai punita, ha assassinato otto giovani: Ali Ismail, Berkin, Ethem, Mehmet, Abdullah, Medeni, Ahmet e Hasan. In quattro mesi di manifestazioni, più di 8mila persone sono rimaste ferite e circa duecento arrestate. Durante la rivolta è stato interrotto l’accesso alla rete e i media tradizionali hanno prodotto una montagna di notizie false sui fatti. La costruzione del centro commerciale è stata impedita. Tuttavia la rivolta è stata definita «tentativo di golpe non armato», sia dal governo sia dalla magistratura.

La redazione consiglia:
«Gezi Park non fu un golpe». In Turchia assolti a sorpresa

I MEDICI che hanno soccorso i feriti, i media che hanno parlato dei fatti correttamente, gli avvocati che hanno difeso le persone vittime della violenza della polizia e gli imam che hanno accolto i feriti sono stati denunciati e messi al centro di campagne di linciaggio politico e mediatico. Tuttora è in corso un maxi-processo che vede imputate sette persone, tra cui l’avvocato Can Atalay che con le elezioni del 14 maggio scorso è diventato parlamentare per il Partito dei Lavoratori di Turchia (Tip) e attende ancora di essere scarcerato per assumere l’incarico.

La rivolta ha visto la partecipazione di milioni di persone e prima di tutti i giovani, le donne e le persone lgbtq+. Tra queste c’era anche Hazal Siphai che oggi lavora come giornalista e produce dei contenuti podcast sulla violenza di genere. Durante la rivolta, nel 2013, aveva ventuno anni e studiava per diventare giornalista.

«Insieme ad altre persone, da tempo raccoglievamo delle notizie per un blog sui progetti di riqualificazione urbanistica e gentrificazione. Avevamo seguito anche il caso del Parco Gezi». Per Hazal è stato spontaneo trovarsi dentro la rivolta. Per tutto il mese di giugno è rimasta nel parco e ha partecipato a quei quindici giorni di occupazione e autogestione, all’inizio della rivolta, che rappresentarono l’anima organizzatrice orizzontale della rivolta.

La redazione consiglia:
Il parco Gezi è salvo. Per ora

IL PARCO GEZI è stato sempre un luogo di lavoro e attivismo ma anche rifugio per le persone lgbtq+, sempre più emarginate ed escluse dalla società. Per loro far parte della rivolta era importante: «Le persone lgbtq+ sono diventate più visibili con la rivolta. Erano lì con le loro identità visibili. È stata una rivolta inclusiva. Tutte le persone si sono unite contro il male senza badare alle identità». Da quest’esperienza è nata un’edizione spettacolare del Pride, lo stesso giugno, che ha visto la partecipazione di più di centomila persone.

maggio 2023, le vittime commemorate a 10 anni dalla rivolta (Ap/Francisco Seco)

«Oggi di quella rivolta mi resta in mente l’idea che possiamo unirci per difendere i nostri diritti uscendo dalla nostra bolla. Gridare, camminare e lottare per diverse rivendicazioni mi ha fatto sentire preziosa. Gezi è stato un momento di esistenza per me. Ho imparato che serve organizzarsi ed è bello e utile lottare insieme».

Il ballottaggio delle elezioni presidenziali è caduto proprio nel decimo anniversario dell’inizio della rivolta del Parco Gezi. Il primo ministro dell’epoca oggi è il presidente della Repubblica e tuttora in carcere ci sono diverse persone, detenute per la loro partecipazione diretta o indiretta alla rivolta. Fuori dal paese invece ci sono migliaia di persone che vivono in esilio aspettando che, al posto del regime insediato ad Ankara, un giorno arriverà l’anima della rivolta di Gezi. Allora, potranno ritornare in una Turchia più libera, laica e democratica.