Uno Stato nello Stato formato da ex agenti del Kgb, o del suo successore Fsb, trasformatisi in oligarchi che controllano l’economia del Paese, garantendo la permanenza ai vertici di quel potere di cui fanno parte essi stessi di Vladimir Putin. Un sistema che alimenta la propria intrinseca debolezza interna, costruita su un’estesa rete di corruzione, interessi privati che pesano sulla sfera pubblica e repressione, attraverso ricorrenti campagne militari e l’agitare il tema delle minacce che arriverebbero dall’Occidente per legittimare tali atti attraverso un nazionalismo esasperato con cui si cerca di imbrigliare il malessere della popolazione.

Quello che la giornalista britannica Catherine Belton ricostruisce nel suo Gli uomini di Putin (La nave di Teseo, pp. 796, euro 25, traduzione di Alberto Cristofori) è molto più che un quadro dettagliato del sistema di potere del Cremlino. Indagando quanto è accaduto a Mosca nel corso degli ultimi vent’anni, Belton evidenzia infatti la matrice politica e l’intrico di interessi che sta alla base di quanto la Russia di Putin sta facendo oggi in Ucraina.

COME SPIEGA la stessa cronista, specializzata nel giornalismo economico e che vanta una lunga esperienza al Financial Times, la sua inchiesta è cominciata «come un tentativo di seguire l’acquisizione dell’economia russa da parte degli ex soci del Kgb di Putin», ma si è tradotta in un’indagine «su qualcosa di più pernicioso». Ciò che Belton evidenzia riguarda il modo nel quale dapprima un cerchio molto ristretto di sodali del presidente russo, in larga misura proveniente come lui dall’intelligence nazionale, si è andato sostituendo agli oligarchi dell’era Eltisn, le figure che avevano in qualche modo tratto vantaggio dalle grandi «liberalizzazioni» degli anni Novanta, costituendo la nuova élite economica del Paese.

Descritto minuziosamente questo primo passaggio, anche grazie alla rete di contatti e di fonti che ha costruito tra il 2007 e il 2013 lavorando come corrispondente da Mosca per la stampa finanziaria, Belton prende in esame il modo in cui le risorse così accumulate sono state gestite per sostenere la nuova politica imperiale del Cremlino: un fattore decisivo sia sul piano nazionale che globale. Le ingenti risorse economiche derivanti dal controllo di gran parte dell’economia pubblica e privata sono state utilizzate per riproporre in chiave aggressiva il ruolo internazionale del Paese. «Per il regime di Putin, la ricchezza riguardava meno il benessere dei cittadini russi che la prospettiva di potere e la riaffermazione della posizione della Russia sul palcoscenico mondiale», sottolinea Belton.

UNA DELLE STRATEGIE perseguite in quella che negli ultimi anni è stata spesso definita come una forma «ibrida» di conflitto è sotto gli occhi di tutti: mettere in campo «misure attive» per «seminare divisioni e discordie in Occidente», finanziare partiti politici e movimenti alleati di Mosca, affondare «i propri tentacoli in profondità nelle istituzioni occidentali».

Un percorso che al di là del linguaggio con il quale si voglia definire, è stato scandito dall’aperto sostegno ai movimenti sovranisti e all’estrema destra europea e statunitense – gli stretti rapporti con partiti come la Lega di Salvini o il Rassemblement National di Le Pen, ma anche il coinvolgimento a vario titolo nella campagna elettorale che ha condotto alla vittoria di Trump nel 2016 -, come nella geopolitica dell’energia che ha contribuito ad implementare il rapporto di dipendenza di molti Paesi del Vecchio continente dal gas russo.

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UN QUADRO CHE, suggerisce Belton, va tenuto presente anche per individuare le radici dei molti interventi militari compiuti da Mosca nei territori di regioni – oggi Stati indipendenti – ex sovietiche: dalla Georgia all’Ucraina. Se da un lato questa sorta di «mobilitazione permanente» ha cercato di mettere a tacere il dissenso sociale emerso per le condizioni di difficoltà in cui vive una parte consistente della popolazione, nelle vate periferie urbane come in molti dei territori orientali del Paese, dall’altro ha costituto una delle traduzioni più dirette della necessità di alimentare un potere fondato sul nazionalismo e la volontà di dominio degli ex uomini dei servizi.

Non a caso Belton descrive come già nel 2012 (la prima edizione del libro è dell’ottobre dello scorso anno) sia all’interno dei circoli eurasiatici guidati da Aleksandr Dugin, e strettamente legati al Cremlino, che stesse prendendo piede l’idea di una separazione del Donbass dall’Ucraina, poi trasformatasi in guerra nel 2014. Quella guerra, precisa Belton, «non sarebbe mai scoppiata se non fosse stato per i fondi neri russi».