Masha Gessen ama profondamente il proprio Paese e la sua cultura, nata a Mosca ha lasciato una prima volta la Russia nel 1981, a soli tredici anni, per seguire negli Stati Uniti i genitori, ebrei laici cui «l’identità» era perlopiù imposta dallo sguardo e dai pregiudizi dell’ambiente circostante. Ma da adulta, dieci anni più tardi, ha deciso di farvi ritorno, lavorando come giornalista e impegnandosi come attivista Lgbt. Nel 2013 si è però vista costretta a prendere di nuovo una decisione straziante, quella di abbandonare definitivamente la capitale russa per mettere al riparo dalle leggi, e dalle minacce omofobe la propria famiglia.

Definirla perciò una «testimone» di quanto accaduto al Paese negli anni che vanno dalla fine dell’Unione sovietica all’affermarsi del regime di Putin è forse riduttivo: per molti versi Gessen incarna, per averlo vissuto prima di tutto sulla propria pelle, l’idea stessa della dissidenza ad un sistema che punta all’annichilimento di ogni voce autonoma e libera.

Forse per questo le oltre settecento pagine del suo Il futuro è storia, pubblicato da Sellerio due anni or sono, rappresentano uno dei documenti più sconvolgenti, e al tempo stesso nitidamente illuminanti, di una realtà spesso derubricata ad ordinaria «repressione». E la migliore introduzione ad un percorso tra i testi che negli ultimi anni hanno cercato di fare luce su tale contesto.

COME IN UN GRANDE ROMANZO russo dell’Ottocento, in grado di restituire il clima di un’epoca senza per questo cessare di interrogare il presente, Gessen racconta le traiettorie personali di un pugno di personaggi, reali, nati tra l’inizio e la metà degli anni Ottanta e il cui ingresso nell’età adulta ha coinciso con l’affermarsi del regime putiniano.

Le vicende di Žanna, Maša, Serëza e Lëša si intrecciano con il tramonto dell’Urss, l’annuncio di una svolta democratica, la perestrojka incarnata da Mikhail Gorbaciov e il prendere piede negli anni ’90 di un clima che avrebbe spinto verso il liberismo sul piano economico facendo però marcia indietro su quello dei diritti e delle libertà personali, la stagione dominata dalla figura di Boris Eltsin che alla fine del decennio consegnerà il Paese nelle mani dell’ex colonnello del Kgb Vladimir Putin.

Accanto ai giovani protagonisti della storia, le cui esperienze ed emozioni consentono di osservare in qualche modo «dall’interno» quanto accaduto nella società russa, si stagliano poi le figure di tre adulti al tempo stesso interpreti e analisti di quanto va accadendo, la psicanalista Marina Arutjunian, il sociologo Lev Gudkov e Aleksandr Dugin, l’intellettuale spesso indicato come capofila del nuovo pensiero reazionario di Mosca.

Individuare gli esponenti delle scienze umane e sociali come testimoni di quanto si è prodotto in Russia non è certo una scelta casuale, ma indica quanto difficile sia stato in passato dare voce alle opinioni dei singoli cittadini dell’Urss, quando «le uniche storie su se stessa, che la Russia raccontava a se stessa, erano quelle create dagli ideologi sovietici».

Una riflessione non marginale se riproposta a fronte del clima plumbeo che si respira di nuovo oggi. Quanto a Dugin, Gessen lo indica ad un tempo come l’ideologo della ricostruzione di una Russia forte e coesa all’interno come all’esterno, ma anche come il catalizzatore di un clima generale, di tendenze in atto che forse non avevano bisogno di nessun «nuovo Rasputin» per affermarsi fino in fondo.

LE VICENDE DEI QUATTRO giovani protagonisti, tra loro diversi anche se allo stesso modo partecipi dei movimenti per la democrazia, illustrano infatti il modo in cui le promesse di libertà siano rapidamente sfumate in Russia, schiacciate dalla crisi economica, dalle liberalizzazioni truffaldine gestite dal clan di potere riunito intorno a Eltisn, dalla repressione scatenata dallo stesso presidente, ma anche dal riemergere di una crescente nostalgia per quelle «garanzie» di epoca sovietica che consentivano spesso una vita appena decente negando però totalmente le libertà individuali. Il tutto, rielaborato all’ombra di un rinnovato nazionalismo.

La parola con cui nel Paese si è chiusa la porta alla possibilità di un futuro diverso, segnala Gessen, è stata non a caso «stabilità».

Il modo in cui vicende altrimenti complesse si sono perciò abbattute in modo violento e terribile sulle vite di Žanna, Maša, Serëza e Lëša emerge all’interno di questo quadro. Per Lëša, come vittima della campagna culminata con la legge contro la «propaganda gay» varata nel 2013 dopo un decennio di attacchi di ogni sorta, che lo costringerà ad abbandonare i corsi sugli studi di genere che teneva all’università e rifugiarsi all’estero prima di un probabile arresto.

Per Žanna, con l’uccisione del padre, l’oppositore liberale Boris Nemcov, assassinato a colpi di pistola nel febbraio 2015 sul ponte Bol’šoj Moskvoretsky, nei pressi del Cremlino. Per Maša, con anni di repressione per ogni protesta – all’inizio decine di migliaia di persone in piazza, alla fine anche solo qualche decina -, e un processo per aver partecipato alla grande mobilitazione di Piazza Bolotnaya a Mosca nel 2012 contro i brogli elettorali a favore del partito di Putin, Russia unita: la punta più alta delle proteste degli ultimi vent’anni, represse attraverso processi considerati illegali anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Quanto a Serëza, è sparito del tutto dal radar di Gessen dopo una lunga depressione.

Presentandosi ad un Paese che dopo la fine dell’Urss aveva conosciuto un decennio di incertezza, Putin si è proposto come il garante di un ritorno all’ordine che mescola echi staliniani e zaristi, una morale «tradizionale» contraddistinta da un’autentica caccia agli omosessuali, il riaffiorare di una visione paranoica verso l’esterno che fa bollare come frutto di un complotto occidentale ogni afflato democratico e spinta innovativa.

UN ORIZZONTE che nelle parole del leader russo aveva gli stessi accenti di Dugin e dei nuovi ideologi rossobruni e eurasiatici emersi anch’essi negli anni 90: «La Grande Russia è il mondo russo, la civiltà russa: un territorio che coincide approssimativamente con quello dell’impero russo e dell’Urss». Già prima che iniziasse il ciclo della guerra: Cecenia, Georgia, Crimea, Ucraina, l’orizzonte era in qualche modo segnato. La sfida a varcare i limiti della stagione dell’Homo Sovieticus, quell’identità così a lungo indagata tra gli altri dalla scrittrice Premio Nobel Svetlana Aleksievic, sembra essere perduta. «La prima generazione di persone che non serbavano alcun ricordo del terrore staliniano non era riuscita a superare il retaggio del totalitarismo – sottolinea Gessen -; la prima generazione post-sovietica – coloro che erano nati durante la perestrojka e cresciuti negli anni 90 – era stata protagonista delle proteste del 2011-2012, ma non incarnava più la speranza; ora era la volta della generazione nata sotto Putin».

Tra i nomi evocati da Gessen compare non a caso quello del sociologo Lev Gudkov, direttore del Levada Center, l’unico istituto demoscopico indipendente del Paese, obbligato dalle autorità, in base ad una legge varata nel 2016, a qualificarsi, al pari di molte altre realtà sospettate di attivismo democratico, come «entità straniera».

Mattia B. Bagnoli, caporedattore dell’ufficio moscovita dell’Ansa, per il suo «viaggio» nel Modello Putin (People, 2021) ha dialogato a lungo con Gudkov proprio sugli aspetti di continuità e innovazione del regime attuale. «C’è chi l’ha chiamata democrazia sovrana, democrazia gestita, regime ibrido o persino Stato-mafia: sono tutte mezze definizioni che non descrivono bene la situazione attuale perché non coprono tutti i particolari della gestione del potere», ha spiegato il sociologo, precisando come in particolare il sistema attuale conservi del modello sovietico il controllo del Cremlino su magistratura, istruzione e polizia. Contesto che accanto al riemergere nello spazio pubblico della figura di Stalin – la figura più cara ai russi secondo le indagini del centro – fa parlare Gudkov di una «stalinizzazione strisciante della società».

SUL FONDO EMERGE poi quanto indicato da Luca Gori, diplomatico di lungo corso che ha lavorato sia a Mosca che a Washington, in La Russia eterna (Luiss, 2021), una colta e approfondita indagine sul formarsi dell’«ideologia post-sovietica», vale a dire come malgrado «la Russia abbia subito influenze esterne (bizantina, tatara, europea) e abbia visto diverse tendenze di pensiero confrontarsi sulla sua essenza identitaria e sulla sua missione storica», siano spesso prevalsi nel Paese «i promotori di una qualche forma di Idea Russa, cioè di un percorso speciale e nazionalista di sviluppo, basato su specifichi valori e specifiche istituzioni distanti o diverse dall’Occidente. Secondo alcune interpretazioni, la stessa Urss, nella sua versione stalinista, avrebbe in qualche modo riproposto una forma sovietica di Idea Russa».

Del resto, anche la svolta conservatrice di Putin «può essere considerata a tutti gli effetti come la riproposizione di una nuova forma di Idea Russa: un contenitore di proposte conservatrici funzionali a un disegno patriottico di sovranità politica, di autocoscienza nazionale e di riaffermazione di un ruolo di grande potenza sullo scenario globale. Un progetto fondato su una visione tradizionalista della storia, della cultura e degli interessi della Russia».