Nanni Moretti in una foto di scena di "Caro diario"
Nanni Moretti in una foto di scena di "Caro diario" – Ansa
Visioni

Litighiamo sul cinema

Dall'archivio - 20 marzo 1988 Un bilancio di dieci anni mentre esce «Domani accadrà», prodotto dal regista di «Ecce bombo»
Pubblicato più di un anno faEdizione del 26 maggio 2023

Dal manifesto del 20 marzo 1988 una lunga intervista a Nanni Moretti in occasione dell’uscita di un film da lui prodotto, Domani accadrà, esordio cinematografico di Daniele Luchetti. Questo articolo è stato riproposto nella newsletter speciale “Cuore di Cannes” dedicata al Festival francese del cinema in corso in questi giorni.

«Un giorno qualcuno ci spiegherà in che rapporto sono gli articoli di Pintor e della Rossanda con le scemenze che sulla televisione si scrivono sul manifesto. Vorrei sapere in che rapporto è un giornale che vorrebbe essere un po’ comunista con queste idiozie. Sono 11 anni che vorrei scrivere una lettera al manifesto sulle sue posizioni sugli spettacoli. Poi non la scrivo, un po’ per pigrizia… un po’ per… Ma forse la scriverò perché… non dovete farla franca così! Rabbrividisco pensando a tutte le generazioni di ragazzi e ragazze che si son formati leggendo queste cose che avete scritto sul manifesto».

In realtà con Nanni Moretti si dovrebbe parlare del secondo film che ha prodotto insieme a Angelo Barbagallo Domani accadrà di Daniele Lucchetti e che è appena uscito a Roma. Ma non è possibile non parlare d’altro.

La prima volta che l’ho conosciuto, dieci anni fa esatti, era il giorno del rapimento di Moro. E, invece di parlare della sua opera prima, Ecce Bombo, spostava naturalmente l’attenzione su Moro e sul discorso di Lama in tv. Allora mi stupì che aveva scelto il direttore della fotografia quasi per caso, su consiglio dei fratelli Taviani. Io, se avessi dovuto esordire, a quel tempo avrei chiesto Lucien Ballard, il direttore della fotografia dei Peckinpah, del Mucchio Selvaggio.

Non è Ballard, invece, ma Franco Di Giacomo, che illumina la prima scena di Domani accadrà. Anche se ci sono cavalli e cowboy maremmani. D’altra parte i protagonisti non sono Strother Martin e L.Q. Jones o Ben Johnson e Warren Oates, ma Paolo Hendel e Giovanni Guidelli, che vengono non dal cinema di Peckinpah, ma dal set di La notte di San Lorenzo dei Taviani.

Lo scontro, non duro, ma comunque fondamentale di una certa generazione di critica con Moretti sta forse in questo diverso amore per il cinema, in queste diverse origini. Ma dopo dieci anni penso che sia giusto così. Che i percorsi individuali che si sono fatti fino a qui ci hanno comunque portato da qualche parte i «se non si va non si vede», recita anche un cartello del film.

Almeno io ho capito che si può fare cinema anche senza scomodare Lucien Ballard. E forse Moretti ha capito che si devono scegliere i collaboratori conoscendoli. Domani accadrà è un bel film anche se avremmo voluto più cavalcate e più western all’italiana. Forse, dopo dieci anni, sarebbe giusto fare qualche verifica di cosa è stato quest’ultimo cinema italiano e perché un film come Domani accadrà esca assieme all’ultimo Montesano.

Anche se, mi ricordo, Ecce Bombo usci per «spianare la strada» a un film pure di Montesano, Le braghe del padrone di Fiavio Mogherini, che aveva la stessa distribuzione sotto Pasqua. Ma c’è qualcuno, francamente, che si ricorda una scena del film di Mogherini?

Ricordo un’intervista che ti fece Tatti Sanguineti su La Repubblica di una decina d’anni fa dove eri molto polemico col cinema italiano…

Riguardo a quella vecchia intervista io credo che il vero scandalo sia non tanto un regista che parla male di film che non gli piacciono, ma che parla bene di film che gli piacciono. I registi di solito non parlano mai male dei film degli altri per diplomazia, ma del resto non parleranno mai bene neanche dei film degli altri perché non riusciranno mai ad ammettere con sé stessi che un qualcun altro possa aver girato qualcosa di bello. L’invidia è il sentimento dominante, quasi il motore dell’industria cinematografica e di questa stessa città, Roma, dove c’è il cinema, la televisione, il teatro, i giornali, e ci vivono quelli che fanno queste cose o che vorrebbero farle. In questa città interi quartieri si muovono sul sentimento dell’invidia fin dalla mattina quando si alzano.

Dopo quell’intervista ce ne sono state altre dove ribadivi il tuo impegno nei confronti del cinema. Una posizione comunque attiva. Fino a quando a Venezia, un anno fa, hai portato Notte italiana di Mazzacurati come produttore e hai parlato di «serietà» di un progetto.

La voglia di produrre dei film è stata un’iniziativa assolutamente personale, che parte dal piacere personale e dalla rabbia personale. Io sapevo e so che intorno c’è il deserto. Non c’è un’industria che incoraggi a produrre, non c’è interesse da parte delle forze politiche. Non c’è un clima, un’atmosfera che invoglino a fare cose di questo tipo. In Francia, ad esempio, si fanno anche tanti film pretenziosi e alla moda, ma c’è un clima, un’atmosfera, un rispetto per il cinema. Ma dicevo piacere personale e rabbia personale. Il piacere è quello di lavorare con gli altri, di produrre dei film e di vederli io per primo come spettatore, di seguire tutto il processo di lavorazione di un film, però, naturalmente, con minori angosce di quando sono io il regista. La rabbia è dimostrare il contrario a quelli che continuano a dire che non si possono fare film italiani, a costi contenuti.

Quanto costano questi film?

Quello di Mazzacurati un miliardo e trecento milioni, quello di Luchetti un miliardo e seicento milioni. In tutto per i tre film (compreso il mio) sono cinque miliardi, cioè quanto un brutto film italiano, e la metà di un film fintamente internazionale. Negli ultimi anni c’era questo paradosso da parte dei produttori: sembrava che fosse più facile fare un film costoso, buttandoci dentro, quindi, attori fintamente internazionali, mentre la sceneggiatura, facendo il giro del mondo, e volendo accontentare tutti, diventava sempre più piatta ed esangue. Alla fine non era più un film, ma una combinazione. Io non voglio ora teorizzare per sempre che sia giusto fare film italiani, a basso costo con attori italiani, ma abbiamo fatto questa scommessa e l’abbiamo vinta. Anche Messeri, protagonista in «Notte italiana» è una scommessa vinta, perché un altro produttore avrebbe voluto non voglio pensare chi.

Ma cosa significa, per te, la «serietà dell’operazione»?

Quest’iniziativa mi sembra bella e se dico seria è nel senso che non vendo fumo. E so benissimo che in Italia in questo campo i vincenti sono quelli che vendono fumo. Vendono fumo e raccolgono arrosto. Rispetto anche a persone che hanno più soldi di me, più prestigio e potere, io sono riuscito a fare questa cosa, senza chiacchiere. L’ho annunciata e l’ho realizzata. E ora produrrà film diversi tra loro. Quindi se c’è un marchio nella Sacher è questo: non vendo bufale. Ho fatto esordire due registi nel giro di sei mesi e se alla fine della stagione vogliamo essere generosi e facciamo il conto dei film italiani da salvare mi sembra proprio che ci rientrino tra questi i due che ho prodotto. Gli altri produttori che hanno dieci o venti film all’anno non mi sembra che possano dire altrettanto.

Pensi che un’operazione come questa possa essere un incentivo per operazioni analoghe?

Non so. Se penso al mio doppio esordio di Io sono un anarchico ed Ecce Bombo, oggettivamente, servì da incentivo per giovani registi. Mi sembra, senza volerlo, di avere aperto piccole porte. Ma in Italia, ormai, mi sembra che il cinema non conti proprio più niente.

Come, non conta niente?

Ecco, 15 anni fa, non so, anche sul manifesto c’erano grandi discussioni, litigate sull’ultimo film di Bergman, Sussurri e grida o sui brutti film dell’impegno, o su La storia di Elsa Morante. Le litigate più aspre erano sui libri e sui film, non sulle linee politiche e sindacali. Ecco, ora le discussioni pubbliche e anche le nostre discussioni private sono per stabilire se è più scemo quindi più carino quel programma televisivo o se sia invece più scemo quindi più carino quell’altro programma televisivo. Il cinema conta poco per tutti, ma siccome conta per me, io lo faccio e lo produco.

Si, da Fantastico ad Arbore non si fa altro che prendere posizioni e discutere sulle singole puntate. Pensi che se ne parli troppo sui giornali?

Non è che della televisione se ne parla troppo, semmai se ne parla male, perché… non so. Io vorrei un po’ di memoria da parte dei giornalisti, anche in quelli del manifesto. Perché quando mi si parla per un mese di una trasmissione che nessuno ha visto come Matrjoska, poi quando Berlusconi non fa mandare in onda questa trasmissione, allora… grande scandalo!… e se ne parla ancora per giorni… Poi l’autore di questa trasmissione minaccia di dimettersi, bravo! Tutti lo incoraggiano. Poi lui si dimette, bravissimo! intervista a lui! E ti dimetti dicendo cose sgradevoli del tipo che no, senz’altro non è stato Berlusconi a liquidare il programma, forse Berlusconi nemmeno l’ha visto, Berlusconi è persona piena di ironia e intelligenza, sono invece i suoi collaboratori che sono sciocchi e zelanti. E questa è una cosa di una sgradevolezza… Ma chi li ha scelti questi collaboratori, io? E, comunque sull’intelligenza e sull’ironia di Berlusconi… Allora, l’autore che si era dimesso, il giorno dopo rientra, bravissimo! sei rientrato, parlaci del programma nuovo… Io chiedo un po’ di memoria nei giornalisti e un po’ di pudore e di dignità in queste persone.

E a proposito di giornalisti, parentesi: che cosa è il potere? io ho fatto una conferenza stampa per quelli che scrivono i cosiddetti pezzi di colore. Era il giorno in cui era stato nominato Tinazzi direttore della Mostra del cinema. Ho parlato pochissimo, ma una delle poche cose che ho detto era: «Bene, allora Rondi ce l’ha fatta. Biraghi non farà il direttore della Mostra del cinema!». Il giorno dopo nessun giornale riportava questa frase. Quindi ho capito che cosa è il potere.

Ritornando alla televisione, preferisci Arbore o Ricci?

Mi è più simpatico Arbore; c’è una bella differenza di gusto, d’ironia. Però vorrei ricordare che la televisione per fortuna è anche Processo alla mafia.

E i film in tv? Sai che un qualsiasi film con Montesano o Pozzetto, come Culo e camicia arriverà ai dieci milioni di telespettatori?

Credo sia quello il vero scandalo. Quando si parla di crisi del cinema, si pensa sempre ai registi, ai produttori, ai distributori e, naturalmente, agli esercenti. Ecco… ma perché il pubblico deve essere sempre considerato innocente? Per esempio, Apostrophes di cui tutti parlano senza averla mai vista, è una trasmissione semplice, forse anche un po’ noiosa. In Italia, probabilmente, non andrebbe bene. Perché in quel momento i telespettatori francesi sono migliori di noi telespettatori italiani, o comunque differenti.

Comunque, il fatto importante, e che tu sai benissimo, è che ogni film, anche Domani accadrà avrà più spettatori quando passerà in tv fra un anno che adesso al cinema. La cosa buffa di questo balletto fra cinema e tv è che il cinema in sala, in realtà, non esiste.

Non esiste per te. Io ci vado sempre! In questo momento mi sembra che si assista nel cinema a una banalità dilagante. Non solo nel cinema italiano, ma anche in quello americano. Con qualche eccezione, Lynch, Scorsese, Coppola, non mi pare che ci siano dei Vanzina solo in Italia. In questo momento in America ci sono dei registi che confezionano bene film orrendi. Ti faccio tre esempi: Attrazione fatale, Wall Street e Angel Heart.

Hai visto Bye bye Baby di Oldoini e Ti presento un’amica di Massaro? Sono desolanti, i protagonisti non leggono niente, non fanno niente.

Uno di questi film l’ho visto. C’è un modo così orrendo e cafone di mettere in scena la ricchezza che mi stupisce non faccia nascere una contropoetica del barbone, del disadattato.

E tutto questo in un anno di celebrazioni sessantottine. Hai visto quanti figli stanno nascendo in questo periodo da genitori della nostra generazione?

I discorsi generazionali cerco di evitarli. Però, forse, in questo caso è necessario. Sento nella nostra generazione il bisogno di teorizzare su tutto, di razionalizzare, di imporre le proprie scelte come scelte generazionali. Cosi tutto diventa giornalismo. Se tu hai fatto un figlio o altri amici hanno deciso di avere figli, fate figli e basta… invece no, dovete ragionarci su, teorizzarci.

La nostra generazione forse è stata troppo abituata a discutere… Ma il discorso sul ’68, in realtà, riguardava proprio il film di Luchetti che è ambientato nel ’48 e parla di utopie irrealizzate. Non ti sembra che si possa leggere come parabola del ’68?

Qualcuno lo ha scritto. Luchetti dice di non averci pensato. Quello che interessava a lui era, per esempio, che tutti fossero dei dilettanti nel loro campo, in senso buono, sia i briganti che i butteri. Quello che a me interessava quando ho letto il soggetto, era questo fatto che la Storia con la S maiuscola entrasse in maniera non didascalica nella storia con la s minuscola…

Questo sembra una lezioncina sul cinema dei Taviani. E in qualche modo è giusto, perché il film si avvicina a certi film di Taviani, penso naturalmente a San Michele aveva un gallo e a Allosanfan. Però al tempo stesso mi sembra anche figlio di La messa è finita. Nella scena finale, ad esempio, i due protagonisti hanno deciso di attraversare il Po a nuoto come il prete del tuo film si tuffa per tornare a Roma. Ma incontrano poi i rivoluzionari di San Michele…

Un’altra cosa che mi piace nel film è il suo essere atipico. Era difficile, ad esempio, trovare il registro, il tono giusto nella messa in scena, nei dialoghi, nella recitazione. È un film in costume… una delle cose a cui abbiamo fatto più attenzione è il cast. Mi piace che si trovino gli attori giusti. E qui il cast parte in maniera un po’ eterogenea, ci sono Ciccio Ingrassia e Dario Cantarelli. Paolo Hendel e Gianfranco Barra. Ma la direzione degli attori rende omogeneo il tutto.

Prima parlavi di dieci film da salvare. Quali metteresti in questa stagione?

In coda i due che ho prodotto io. Poi salverei il film di Olmi, quello dei Taviani. Stranamente il film di Ferreri e ho detestato invece sia Storia di Piera che Il futuro è donna, naturalmente il film di Bertolucci. Tra i film di Natale quello di Troisi…

E di queste 10 opere prime italiane, cosa pensi?

Quanti di questi film poi usciranno? Molti film non sono usciti per niente, pur avendo alle spalle vere produzioni, come Luci lontane di Aurelio Chiesa, che è prodotto da Claudio Argento. Ora usciranno forse dei film di esordienti che spero siano buoni, come quelli dell’Archibugi, di Piccioni, il secondo di Farina… Ma tanti di questi film non usciranno proprio. I film di Luchetti e Mazzacurati sono le uniche opere prime non distrutte dal mercato proprio perché, facendole, noi non abbiamo pensato al mercato. Vorrei aggiungere che l’importante è l’atteggiamento con cui uno mette su una produzione. Ora ho trovato questi finanziamenti e ho fatto così i film. Se però si chiudono certi spazi io non la prendo come una scusa per non fare più niente. Ci saranno meno soldi? Allora ci inventeremo altre formule produttive. Inventeremo soggetti che possano costare pochissimo.

Altra cosa importante è il talento. Quando non si sa cosa dire di un regista, quando proprio non ce la fa, quando non ha talento, ma devi dirgli qualcosa perché fai il mestiere del critico è perché lo incontri in un corridoio o per strada, allora gli si dice che ha grande professionalità, che ha messo a frutto la sua esperienza, che è molto preparato tecnicamente, che ha diretto un prodotto dignitoso o dignitosissimo. A me di aver messo su la Sacher per fare film dignitosi non mi importa proprio. A me interessa il talento e credo di avere iniziato bene con questi due registi.

Come riconosci il talento di un giovane aspirante regista?

Con Carlo Mazzacurati giocavo a calcio. Con Daniele Luchetti, beh, ha fatto da aiuto nei miei ultimi due film, ma sapevo benissimo di non essere tra i suoi modelli. Devo dire che per me, comunque, contano due cose. Leggere il soggetto e conoscere la persona, guardarla in faccia mentre parla del suo progetto.

C’ètanta gente che viene a chiederti «voglio fare un film»?

Tantissima, ma non ho mai un sentimento di fastidio. Hanno tutta la mia solidarietà.

I rapporti con la Rai sono buoni?

Si.

Pensi che con Berlusconi sarebbe stato uguale?

Non mi interessa lavorare con Berlusconi. Finché posso decidere con chi realizzare i miei progetti io lavoro con la Rai e non con Berlusconi. È un fatto per me naturale, scontato.

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