«Caro diario c’è una cosa che mi piace fare più di tutte …» confida ai fogli bianchi del quaderno Nanni Moretti, l’istante dopo eccolo volteggiare in Vespa nelle strade di Roma, sui viali intorno al Gianicolo e a Monteverde fino ai lotti popolari della Garbatella che è il suo quartiere preferito. E intrufolarsi nei portoni e nei cortili – magari con la scusa che sta preparando un film, «la storia di un pasticcere trotskista nell’Italia degli anni ’50, un musical» – perché le case gli piace guardarle pure dentro. Fantasticare con la compagna sugli attici troppo cari, attraversare il ponte del cuore spiegando all’unico tizio in strada che a lui piacciono le persone e non «la maggioranza» fino a incontrare persino Jennifer Beals, la protagonista di Flashdance, il film che gli ha cambiato la vita, lui che adora ballare ma non ha abbastanza coraggio per lanciarsi – voyeur delle piste più che protagonista, flaneur severo. I’m Your Man sussurra Leonard Cohen.

È UN’ESTATE dei primi anni ’90 italiani che scoprono Didi (Khaled) e la musica raï, si fanno accompagnare dal Köln concert di Keith Jarrett (non ancora divenuto jingle per spot di automobili), le strade della capitale sono deserte, oggi farebbe subito lockdown allora erano semplicemente «le ferie». La macchina da presa segue Moretti di spalle, si incolla alla traiettoria del suo sguardo dal basso in alto verso i palazzi che cambiano da un quartiere all’altro raccontando la storia della città. Spinaceto, quartiere «recente» – che se ne parla sempre male ma: non è così terribile Spinaceto. E Casalpalocco con «l’odore di pizze incartate e videocassette» – «Ma perché siete venuti a vivere a Casalpalocco, Roma allora era bellissima!», Monteverde, il Villaggio Olimpico, il Tufello, Vigne Nuove. Non sono le Vacanze romane della principessa in incognito Audrey Hepburn tra le icone seriali dei monumenti ma vagabondaggi nell’architettura cittadina, e nei suoi continui cambiamenti, perché nulla rimane indenne dalla gentrificazione, che ci raccontano distanze, divisioni, classi sociali, immaginari. E mentre le note di Jarrett crescono la Vespa è già sulla litoranea, Ostia, dove Pasolini è stato ucciso rimangono soltanto sterpi assolati: «Non ci ero mai stato» dice Moretti.

«CARO DIARIO» torna in sala lunedì 12 ottobre, con la Cineteca di Bologna Cinema, al Festival di Cannes vinse la Palma d’oro per la migliore regia, e rimane uno dei film più amati del regista il cui lessico di ossessioni «morettiane» ha attraversato il tempo. È anche il film in cui Moretti abbandona il suo altro da sé, Michele Apicella, per una prima persona dichiarata anche se nella distanza narrativa: Caro diario dice del resto il titolo rivolgendosi a quello spazio intimo e privatissimo che è appunto un diario, in cui ogni adolescente nasconde turbamenti e palpitazioni, dove quasi come dall’analista si osa dare voce ai pensieri più segreti.

Eppure come era stato nei film precedenti – e come sarà fino a Aprile, poi la forma utilizzata per farlo cambia – anche stavolta questa «prima persona» rimanda a una condivisione, dichiara una «lingua» comune, lo spazio di un reciproco riconoscersi. A chi parla Moretti? Alla sua generazione, intanto, lui «splendido quarantenne»indignato davanti ai film italiani unici programmati – insieme a Sesso amore e pastorizia – nelle chiusure estive con personaggi della sua età che si lamentano perché sono «invecchiati e disonesti» e hanno messo da parte tutti gli ideali. «Voi» gli grida dalla platea di una sala, voi gridavate «cose orrende», voi sarete così. E sono sempre i suoi coetanei a essere succubi dei «figli unici» di Salina, centro sovrano delle loro attenzioni – le telefonate in cui gli adulti supplicano i bimbi di lasciarli parlare coi loro genitori sono geniali.

È lui Nanni (come era Michele) – severo, intransigente, attento al dettaglio delle scarpe persino con l’adorata Beals. Snob. Che cerca per castigarlo il critico autore di una recensione positiva di Henry pioggia di sangue da cui è uscito – la sala è il Fiamma anch’essa sparita – annichilito. Eppure era un giornale autorevole, cioè il nostro, «il manifesto». La recensione «incriminata» – che potete leggere qui sotto – l’aveva scritta su queste pagine Giuseppe Salza, grande fan di McNaughton, ma in realtà quella e gli altri frammenti di recensioni che Moretti legge al povero critico che si dibatte tra le lenzuola al suono delle sue stesse parole, sono un montaggio di una «scrittura manifesto», in particolare di Roberto Silvestri, ricostruita con ironica filologia, umorismo e lo sberleffo affettuoso di un lettore molto attento che con il critico – Silvestri ma pure Mazzacurati di cui aveva allora già prodotto il folgorante esordio Notte italiana – ha in comune visioni e scoperte di film, fotogrammi, un terreno politico.

LO SGUARDO curioso nelle energie vitali della cultura italiana porta nel film Antonio Neiwiller, un «clandestino» del teatro, figura centrale nella scena napoletana dove cresce Martone, riferimento lui che non ha scritto nulla per le nuove generazioni – da Andrea Renzi a Antonello Cossia. È il sindaco di Stromboli, su cui Moretti approda vagando per le Eolie coi suoi appunti per un film, vorrebbe ricostruirla da zero come l’Italia – peccato che i suoi concittadini lo odino.
Perché oltre la generazione quel sentimento «comune» che attraversa il film rimanda alla sinistra – già frantumata dalla caduta del muro e dalle mutazioni del Pci – al cambiamento del nome Moretti aveva già dedicato La cosa; l’essere di sinistra, l’essere a sinistra, qualcosa oggi che oggi sembra lontano, e che anche allora cominciava a esigere nuove intuizioni. Si era fatta forse cogliere impreparata dall’incanto berlusconiano delle tv – l’anno dopo, il 94, sarà quello della «discesa in campo» di Berlusconi – un po’ come l’amico di Nanni che vive a Lipari (Renato Carpentieri), sulla televisione cita Enzensberger ma cade subito nella seduzione di Beautiful.

LA PAROLA, l’universo, le ossessioni morettiane sono anche ciò che permette al regista di virare nell’intimo con pudore e con leggerezza, e parlarci – ma il privato è politico si diceva un tempo – della sua malattia, un tumore al sistema linfatico, di filmare la chemioterapia senza imbarazzi. Ci si riconosce anche lì.
Rivedere Caro diario è una bella esperienza, è anche riscoprire un film formalmente spericolato, che dichiara i suoi amori – a proposito di danza, Silvana Mangano in Anna di Lattuada – i legami e le distanze col cinema italiano. Che è in dialogo col suo tempo e insieme sa interrogare quello presente.

 

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Un estratto della recensione di «Henry, pioggia di sangue» di Giuseppe Salza, che Moretti legge in «Caro diario», uscita sul «manifesto» nel 1992.

Vent’anni fa McNaughton credeva che l’Lsd avrebbe cambiato il mondo. Poi ha acceso la televisione. E ha visto un reportage su Henry Lee Lucas, serial killer texano reo confesso di oltre 300 omicidi in 10 anni di attività (ma secondo gli inquirenti la cifra è eccessiva). Giù uno script dell’amico Richard Fire, 112 mila dollari racimolati tra «promoters» di Chicago nemmeno familiari con il cinema, un 16 mm e una videocamera, e 28 giorni di riprese dentro e fuori la nativa Chicago. Nel 1985. Henry – Portrait of a serial killer dirotta subito lo spettatore verso un torbido viaggio malsano, affiancato da una morale distorta. Nel senso che Henry uccide la gente ma è quasi un «buono». Di poche parole, contano i fatti. Invece il suo amico Otis è una carogna. Henry vive una pazzesca solidarietà con le sue vittime, è un principe sangue blu dell’annientamento e promette una morte «pietosa».

OTIS NO. Ci prende gusto, filma gli omicidi con la handycam e se li ripassa a casa. E alla fine vuole stuprare la sorella. E McNaughton risveglia il suo pubblico in un incubo ancora peggiore: con una doccia finale di splatter, occhi infilzati, carne martoriata. L’abominio. Henry è forse il primo film a violare e vilipendere con tale lucidità la filosofia criminale dei lombrosiani di Hollywood. I cattivi non sono delle ombre sghignazzanti con i coltelli e i denti che risplendono al buio; e nemmeno degli angeli del male, guidati dalla voce dall’alto o dal basso delle fogne, o dallo spirito nel frigorifero. Henry personaggio e film uccidono. Senza giustificazioni. Anche la censura ha cercato di uccidere Henry. Con un Rating «X» senza appello. Senza consigli su cosa levare, perché un film del genere non avrebbe nemmeno dovuto esistere.

(…) McNaughton ha fatto un non-film, un ibrido pre-Cnn, un reportage di tarda serata mistificato dalla pellicola (sgranata), un pasto avariato di cinema vomitato dalla «twilight zone» dell’audiovisivo in visione totale. Non c’è nulla di bello, di puro, di cristallino; eppure Henry è una gemma impazzita che si pianta nell’inconscio e che sarà duro estrarre. In un senso Lombroso aveva ragione: c’è chi nasce genio, e John McNaughton è uno di loro. Lavorando e ritagliando i suoi film da una posizione dove il concetto di genere è negato, dove tutte le nozioni di schieramento sono risucchiate dall’altra parte delle lenti Zeiss. Henry non è un horror. Non quello tradizionale, né quello new wave. Ma lo è nel senso conradiano, allargato a dismisura alle ramificazioni urbane.

È TUTTO un gioco (letale) di attirarsi e respingersi, di rivelare e non concludere. Michael Rooker (ora caratterista cult) è il volto glaciale e impassibile di Henry Lee. Intanto nella alta Chicago, John Hughes continua a trastullare i suoi bambini e ragazzotti mostri con script miliardari, Macaulay Culkin innamorati, post-Molly Ringwald odiosissime, ladruncoli da operetta e adulti ossessionati dai tacchini di Thanksgiving. C’è da augurarsi che McNaughton non faccia la sua fine.